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Il giudice può valutare lo stato degli alimenti senza analisi di laboratorio, basandosi su dati documentali e dichiarazioni, se è evidente la mancanza di igiene e tecniche di conservazione adeguate.

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Cass. pen., sez. V, 09/11/2023 (ud. 09/11/2023, dep. 09/02/2024), n. 5672 (Pres. Ramacci, Rel. Andronio)

(Riferimento normativo: L., 30/04/1962, n. 283, artt. 5, co. 1, lett. b); 6, co. 3)

Indice

La questione giuridica

Fermo restando che, come è noto, l’art. 5, co. 1, lett. b), legge, 30/04/1962, n. 283 dispone che è “vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari: (…) in cattivo stato di conservazione” mentre l’art. 6, co. 3, sempre di questa legge stabilisce che, salvo “che il fatto costituisca più grave reato, i contravventori alle disposizioni del presente articolo e dell’articolo 5 sono puniti con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da lire seicentomila a lire sessanta milioni”, nella decisione in esame, è chiarito quando è configurabile questa contravvenzione.

Ma, prima di esaminare cosa ha affermato la Cassazione a tal proposito, si rende necessario prima di ripercorrere brevemente le fasi del processo in occasione del quale è stata adottata la pronuncia in analisi.

All’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Trieste condannava l’imputato, per il reato di cui all’art. 5, lettera b), della legge 30 aprile 1962 n. 283, per avere, quale operatore del settore alimentare di un ristorante, detenuto, nel congelatore, prodotti alimentari deperibili in cattivo stato di conservazione e di pulizia, quali carni, semilavorati, anatre e mazzancolle, congelati in proprio o decongelati e poi ricongelati.

Ciò posto, avverso questo provvedimento il difensore dell’accusato proponeva ricorso per Cassazione e, tra i motivi ivi addotti, era dedotta l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere il Tribunale omesso di motivare in relazione alla violazione di norme che regolano le tecniche di conservazione dei cibi, stimandosi erroneo il richiamo al d.lgs. n. 110 del 1992, non essendo stata accertata tale violazione per mezzo di analisi di laboratorio, capaci di dimostrare il deperimento degli alimenti mentre il verbale di ispezione sanitaria non considerava le caratteristiche delle sostanze alimentari, ma solamente il cattivo stato dei luoghi e degli strumenti impiegati per la conservazione.

Oltre a ciò, il ricorrente prospettava altresì due ulteriori profili relativi all’errata applicazione della legge penale: da un lato, il giudice di merito, concentrandosi sul giudizio di pericolosità del fatto, aveva omesso di apprezzare la circostanza che nessun avventore del ristorante avrebbe accusato malori, contro l’orientamento di legittimità secondo cui il reato di cui all’art. 5 è di danno e non di pericolo; dall’altro, non si era considerato l’art. 9 della legge n. 689 del 1981 che, stabilendo la regola della specialità amministrativa, avrebbe permesso di applicare la sola disposizione amministrativa al posto di quella penale nel caso di specie, in cui era già stata inflitta la sanzione amministrativa per le mazzancolle, a seguito di verbale di accertamento.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Suprema Corte riteneva il motivo suesposto inammissibile.

In particolare, gli Ermellini osservavano prima di tutto che il deperimento della sostanza alimentare non è elemento costitutivo della fattispecie penale di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge 30 aprile 1962 n. 283, perché tale disposizione punisce l’impiego nella preparazione di alimenti o bevande, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione come mercede ai propri dipendenti, o comunque la distribuzione per il consumo di sostanze alimentari “in cattivo stato di conservazione”.

Oggetto della disciplina sanzionatoria è, dunque, la modalità di detenzione degli alimenti, sulla quale deve concentrarsi l’accertamento istruttorio, a prescindere dalla presenza di microbi, parassiti, sporcizia, stati di alterazione, che deve ritenersi irrilevante, in quanto presa in considerazione da altre disposizioni del richiamato art. 5 (in particolare, le lettere c e d).

La richiamata lettera b), del resto,configura una fattispecie autonoma di reato (Sez. 3, n. 37858 del 04/04/2017), in quanto persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell’assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001).

Dunque, per la Corte di legittimità, il reato in questione non può essere escluso sulla scorta della mancanza di accertamenti e analisi tecniche, a fronte della descrizione della situazione di conservazione direttamente apprezzata dagli accertatori – e non contestata dalla difesa neanche con il ricorso per cassazione – secondo cui vi erano alimenti congelati in proprio, anche se destinati al consumo come freschi, oltre ad alimenti ricongelati in proprio dopo un decongelamento e mantenuti in vaschette aperte con brinatura e senza indicazioni dato che, in tema di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge 30 aprile 1962, n. 283, il cattivo stato di conservazione degli alimenti può essere accertato dal giudice di merito senza necessità del prelievo di campioni e di specifiche analisi di laboratorio, sulla base di dati obiettivi risultanti dalla documentazione relativa alla verifica e dalle dichiarazioni dei verbalizzanti, essendo lo stesso ravvisabile, in particolare, nel caso di evidente inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie ad assicurare che le sostanze si mantengano in condizioni adeguate per la successiva somministrazione (ex plurimis, Sez. 3, n. 2690 del 06/12/2019; Sez. 6, n. 5076 del 23/01/2014).

Precisato ciò, i giudici di piazza Cavour rilevavano inoltre – dopo avere precisato che configura la contravvenzione de qua la detenzione di alimenti surgelati in violazione del disposto dell’art. 3 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 110 (Attuazione della direttiva 89/108/CEE in materia di alimenti surgelati destinati all’alimentazione umana), nel caso in cui la preparazione dei prodotti da surgelare e l’operazione di surgelamento non siano state effettuate “senza indugio” e osservando le modalità normativamente previste (Sez. 3, n. 46960 del 25/06/2018; Sez. 3, n. 46860 del 16/10/2007) – che la fattispecie in contestazione è integrata anche nel caso di mero congelamento non appropriato dei prodotti – come nel caso di congelamento in proprio o nel caso di ricongelamento – perché essa si incentra sul dato estrinseco del cattivo stato di conservazione degli stessi.

Ad ogni modo, a nulla rileva che il danno alla salute dei consumatori visto che la configurabilità di codesto illecito penale prescinde dalla presenza di un deperimento degli alimenti, di microbi, parassiti, alterazioni, in quanto non esige un previo accertamento sulla commestibilità, né il verificarsi di un danno per la salute del consumatore (Sez. 3, n. 2649 del 16/12/2003).

Infine, sempre per la Suprema Corte, è generico il rilievo difensivo riferito a un preteso rapporto di specialità fra l’illecito amministrativo di cui all’art. 6 del decreto legislativo n. 193 del 2007 e l’illecito penale di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge n. 283 del 1962 dal momento che l’oggettività giuridica della fattispecie amministrativa è diversa da quella della fattispecie penale poiché il richiamato art. 6, comma 5, punisce il mancato rispetto dei requisiti di igiene di cui ai regolamenti CE n. 852/2004 e n. 853/2004, che non necessariamente trasmoda in un cattivo stato di conservazione degli alimenti mentre la disposizione penale si riferisce a fattispecie nelle quali la cattiva conservazione potrebbe non essere dovuta al mancato rispetto dei citati regolamenti CE.

In altri termini, vi è fra le due disposizioni un rapporto di specialità reciproca, che non esclude la possibilità di una loro contemporanea applicazione.

I risvolti applicativi

Fermo restando che l’art. 5, co. 1, lett. b), legge, 30/04/1962, n. 283 dispone che è “vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari: (…) in cattivo stato di conservazione”, siffatto cattivo stato può essere accertato dal giudice senza campioni o analisi di laboratorio, basandosi su dati documentali e dichiarazioni, come nel caso di mancanza di igiene, fermo restando che non è necessario che vi sia un danno per la salute dei consumatori posto che un congelamento inappropriato può configurare il reato, indipendentemente da alterazioni o danni microbiologici.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 3 Num. 5672 Anno 2024

Presidente: RAMACCI LUCA

Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

Data Udienza: 09/11/2023

Data Deposito: 09/02/2024

SENTENZA

sul ricorso proposto da

Z. Z., nato in … il …;

avverso la sentenza del 25/02/2022 del Tribunale di Trieste;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro Maria Andronio;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Domenico A.R. Seccia, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 25 febbraio 2022, pronunciata all’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Trieste – per quanto qui rileva – ha condannato l’imputato, per il reato di cui all’art. 5, lettera b), della legge 30 aprile 1962 n. 283, per avere, quale operatore del settore alimentare di un ristorante, detenuto, nel congelatore, prodotti alimentari deperibili in cattivo stato di conservazione e di pulizia, quali carni, semilavorati, anatre e mazzancolle, congelati in proprio o decongelati e poi ricongelati.

2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. Si lamentano, in primo luogo, l’erronea applicazione della disposizione incriminatrice, nonché la carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere il Tribunale omesso di motivare in relazione alla violazione di norme che regolano le tecniche di conservazione dei cibi, essendo erroneo il richiamo al d.lgs. n. 110 del 1992 e non essendo stata accertata tale violazione per mezzo di analisi di laboratorio, capaci di dimostrare il deperimento degli alimenti; mentre il verbale di ispezione sanitaria non considerava le caratteristiche delle sostanze alimentari, ma solamente il cattivo stato dei luoghi e degli strumenti impiegati per la conservazione. Deduce inoltre il difensore due ulteriori profili relativi all’errata applicazione della legge penale: da un lato, il giudice di merito, concentrandosi sul giudizio di pericolosità del fatto, omette di apprezzare la circostanza che nessun avventore del ristorante avrebbe accusato malori, contro l’orientamento di legittimità secondo cui il reato di cui all’art. 5 è di danno e non di pericolo; dall’altro, non si è considerato l’art. 9 della legge n. 689 del 1981, che, stabilendo la regola della specialità amministrativa, avrebbe permesso di applicare

la sola disposizione amministrativa al posto di quella penale nel caso di specie, in cui era già stata inflitta la sanzione amministrativa per le mazzancolle, a seguito di verbale di accertamento (10 maggio 2019).

2.2. Con un secondo motivo di doglianza, si censura l’erronea applicazione degli artt. 62-bis e 131-bis cod. pen., oltre a vizi della motivazione, non essendo stati adeguatamente valutati l’esiguità delle quantità di cibo conservate, e il comportamento collaborativo del ricorrente, né ai fini della particolare tenuità del fatto né ai fini delle circostanze attenuanti generiche. Si denuncia, inoltre, l’omessa motivazione in relazione alla richiesta di non menzione della condanna nel casellario giudiziario.

2.3. La difesa ha depositato conclusioni scritte, con cui insiste in quanto già dedotto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. La prima censura del ricorrente è manifestamente infondata.

Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, il deperimento della sostanza alimentare non è elemento costitutivo della fattispecie penale di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge 30 aprile 1962 n. 283, perché tale disposizione punisce l’impiego nella preparazione di alimenti o bevande, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione come mercede ai propri dipendenti, o comunque la distribuzione per il consumo di sostanze alimentari “in cattivo stato di conservazione”. Oggetto della disciplina sanzionatoria è, dunque, la modalità di detenzione degli alimenti, sulla quale deve concentrarsi l’accertamento istruttorio, a prescindere dalla presenza di microbi, parassiti, sporcizia, stati di alterazione, che deve ritenersi irrilevante, in quanto presa in considerazione da altre disposizioni del richiamato art. 5 (in particolare, le lettere c e d). La richiamata lettera b) configura una fattispecie autonoma di reato (Sez. 3, n. 37858 del 04/04/2017, Rv. 271045), in quanto persegue un autonomo fine di benessere, consistente nell’assicurare una protezione immediata all’interesse del consumatore a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. 09/01/2002, Rv. 220717).

Dunque, il reato non può essere escluso sulla scorta della mancanza di accertamenti e analisi tecniche, a fronte della descrizione della situazione di conservazione direttamente apprezzata dagli accertatori – e non contestata dalla difesa neanche con il ricorso per cassazione – secondo cui vi erano alimenti congelati in proprio, anche se destinati al consumo come freschi, oltre ad alimenti ricongelati in proprio dopo un decongelamento e mantenuti in vaschette aperte con brinatura e senza indicazioni.

Va ricordato, infatti, che, in tema di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge 30 aprile 1962, n. 283, il cattivo stato di conservazione degli alimenti può essere accertato dal giudice di merito senza necessità del prelievo di campioni e di specifiche analisi di laboratorio, sulla base di dati obiettivi risultanti dalla documentazione relativa alla verifica e dalle dichiarazioni dei verbalizzanti, essendo lo stesso ravvisabile, in particolare, nel caso di evidente inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie ad assicurare che le sostanze si mantengano in condizioni adeguate per la successiva somministrazione (ex plurimis, Sez. 3, n. 2690 del 06/12/2019, Rv. 278248; Sez. 6, n. 5076 del 23/01/2014, Rv. 259054). E si è in particolare precisato che configura il reato in questione la detenzione di alimenti surgelati in violazione del disposto dell’art. 3 del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 110 (Attuazione della direttiva 89/108/CEE in materia di alimenti surgelati destinati

all’alimentazione umana), nel caso in cui la preparazione dei prodotti da surgelare e l’operazione di surgelamento non siano state effettuate “senza indugio” e osservando le modalità normativamente previste (Sez. 3, n. 46960 del 25/06/2018, Rv. 274029; Sez. 3, n. 46860 del 16/10/2007, Rv. 238449).

Deve ribadirsi, in conclusione, che la fattispecie in contestazione è integrata anche nel caso di mero congelamento non appropriato dei prodotti – come nel caso di congelamento in proprio o nel caso di ricongelamento – perché essa si incentra sul dato estrinseco del cattivo stato di conservazione degli stessi.

Manifestamente infondata risulta, poi, la prospettazione difensiva nella parte in cui ritiene che il danno alla salute dei consumatori sia elemento costitutivo della fattispecie. Deve infatti ribadirsi che la configurabilità del reato prescinde dalla presenza di un deperimento degli alimenti, di microbi, parassiti, alterazioni, in quanto non esige un previo accertamento sulla commestibilità, né il verificarsi di un danno per la salute del consumatore (Sez. 3, n. 2649 del 16/12/2003, dep. 27/01/2004, Rv. 226874).

Del tutto generico è, infine, il rilievo riferito a un preteso rapporto di specialità fra l’illecito amministrativo di cui all’art. 6 del decreto legislativo n. 193 del 2007 e l’illecito penale di cui all’art. 5, primo comma, lettera b), della legge n. 283 del 1962. Come ben evidenziato nella sentenza impugnata – dalla quale si desume, a fronte della genericità del ricorso sul punto, che l’illecito amministrativo riconosciuto nel caso di specie è quello dell’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 193 del 2007 – opera nel caso di specie la clausola di riserva prevista da tale ultima disposizione (“Salvo che il fatto costituisca reato”). In ogni caso, l’oggettività giuridica della fattispecie amministrativa è diversa da quella della fattispecie penale. Il richiamato art. 6, comma 5, punisce, infatti, il mancato rispetto dei requisiti di igiene di cui ai regolamenti CE n. 852/2004 e n. 853/2004, che non necessariamente trasmoda in un cattivo stato di conservazione degli alimenti; mentre la disposizione penale si riferisce a fattispecie nelle quali la cattiva conservazione potrebbe non essere dovuta al mancato rispetto dei citati regolamenti CE. In altri termini, vi è fra le due disposizioni un rapporto di specialità reciproca, che non esclude la possibilità di una loro contemporanea applicazione.

1.2. Inammissibile è il secondo motivo di doglianza, riferito alle circostanze attenuanti generiche, alla particolare tenuità del fatto, alla non menzione.

Quanto ai primi due profili è sufficiente osservare come la motivazione della sentenza impugnata, a fronte di mere asserzioni difensive di segno contrario, sia pienamente logica e coerente, perché valorizza in senso negativo l’elevato grado di pericolo per il bene giuridico tutelato e l’assenza di comportamenti processuali positivamente valutabili, nonché di condotte riparatorie o risarcitorie. Quanto al beneficio della non menzione, lo stesso non risultava richiesto nel corso del giudizio di merito, come emerge dalla narrazione in fatto della sentenza, non impugnata sul punto. E deve ribadirsi che la mancata concessione ex officio della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condanna non è deducibile con il ricorso per cassazione da parte dell’imputato che non abbia richiesto tali benefici nel corso del giudizio di merito (Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, Rv. 270587; Sez. 4, n. 43125 del 29/10/2008, Rv. 241370).

2. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in E. 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di E. 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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