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La nullità giudizio abbreviato, se richiesta tardivamente, può essere eccepita da chi vi ha dato causa?

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Cass. pen., sez. VI, 06/03/2024 (ud. 06/03/2024, dep. 11/04/2024), n. 15077 (Pres. Ricciarelli, Rel. Di Giovine)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava se la nullità del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato richiesto tardivamente può essere dedotta dall’imputato che vi ha dato causa.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

La Corte di Appello de L’Aquila, in parziale riforma di una sentenza emessa dal Tribunale di Vasto, disapplicata la recidiva contestata ad uno degli imputati, rideterminava la pena, quanto a quest’ultimo, in sei mesi di reclusione e, quanto all’altro, in quattro mesi di reclusione, confermando nel resto la condanna di entrambi per favoreggiamento personale.

Ciò posto, avverso questa decisione ambedue gli accusati proponevano ricorso per Cassazione.

In particolare, uno di questi, tra i motivi ivi addotti, deduceva violazione dell’art. 438, comma 2, cod. proc. pen. e vizio di motivazione.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Suprema Corte riteneva il motivo suesposto infondato alla stregua di quell’orientamento nomofilattico secondo il quale la nullità del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato richiesto tardivamente non può essere dedotta dall’imputato che vi ha dato causa (Sez. 2, n. 45144 del 13/11/2008; Sez. 3, n. 15639 del 24/02/2011).

I risvolti applicativi

L’imputato non può contestare la nullità del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato se è stato lui stesso a richiederlo tardivamente.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 6 Num. 15077 Anno 2024

Presidente: RICCIARELLI MASSIMO

Relatore: DI GIOVINE OMBRETTA

Data Udienza: 06/03/2024

Data Deposito: 11/04/2024

SENTENZA

sui ricorsi proposti da

D. P. P., nato a … il …

N. A., nato a … il …

avverso la sentenza del 18/04/2023 della Corte d’appello di L’Aquila;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Ombretta Di Giovine;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Piccirillo, che ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili o rigettati.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Vasto, disapplicata la recidiva contestata a P. Di P., rideterminava la pena, quanto a quest’ultimo, in sei mesi di reclusione e, quanto ad A. N., in quattro mesi di reclusione.

Confermava nel resto la condanna di entrambi gli imputati per favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.).

La condanna si basava sul fatto che, dopo il tentato omicidio D. P. ad opera di R. V., che lo aveva investito mentre era alla guida di un autocarro Fiat Ducato, P. D. affermò, in sede di sommarie informazioni, che le lesioni subite in seguito all’investimento erano invece riconducibili ad una caduta accidentale dallo scooter e A. N. sostenne che P.D. gli aveva riferito tale identica circostanza, con il risultato che entrambi risultarono aver ostacolato la ricostruzione dei fatti.

2. P.D. ha presentato ricorso per il tramite dell’avvocato A. O., deducendo i seguenti dieci motivi.

2.1. Con i primi due motivi si eccepisce, rispettivamente, violazione dell’art. 438, comma 2, cod. proc. pen. e vizio di motivazione.

La difesa aveva contestato in appello che, nonostante si procedesse per reato a citazione diretta, una volta disposta per errore l’udienza preliminare, quella avrebbe dovuto essere la sede in cui andava formulata richiesta del rito abbreviato.

Sarebbe quindi nulla l’ammissione al rito alternativo dichiarata dal Giudice del Tribunale nella prima udienza dibattimentale, essendo la richiesta difensiva tardiva.

Una volta resosi conto dell’errore, infatti, il Tribunale non avrebbe potuto considerare l’udienza preliminare tamquam non esset e procedere secondo l’iter previsto per i reati a citazione diretta.

Né la concessione del rito abbreviato, con annesso sconto di pena, sana tale anomalia, comportando, peraltro, anche l’acquisizione di tutto il fascicolo del pubblico ministero, circostanza spesso non favorevole all’imputato.

La risposta della Corte d’appello – che sul punto si è limitata a rilevare che per errore è stata celebrata l’udienza preliminare – sarebbe, dunque, illogica.

2.2. Con i motivi terzo e quarto si deduce, rispettivamente, errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione, perché il fatto avrebbe dovuto essere qualificato non già come favoreggiamento personale, bensì come “false informazioni al pubblico ministero” (art. 371-bis cod. pen.).

In appello si era osservato che: dalla contestazione risultava che le false dichiarazioni erano state rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero; la diversa qualificazione del fatto ad opera del giudice avrebbe integrato una violazione dell’articolo 521 cod. proc. pen; avrebbe dovuto trovare

applicazione l’art. 371-bis cod. pen.; tale fattispecie prevede la sospensione del procedimento sino alla decisione di quello pregiudiziale che, nel caso di specie, è il procedimento a carico di V..

La Corte d’appello dichiarava infondata la questione, richiamando una risalente pronuncia di questa  Corte (Sez. 5, n. 37306 del 14/07/2010, omissis, Rv. 248641) secondo cui, poiché l’art. 371-bis cod. pen. fa espresso riferimento al pubblico ministero e l’interpretazione analogica in malam partem è vietata in materia penale, si escludeva la configurabilità del reato ove la persona avesse reso false o reticenti dichiarazioni alla polizia giudiziaria, anche nel caso in cui questa operasse su delega espressa del pubblico ministero, potendo il fatto, se del caso, integrare altro titolo di reato e, in particolare, appunto il favoreggiamento personale.

Così ragionando, rileva il ricorrente, i Giudici di secondo grado avrebbero però trascurato che agli imputati è stato ascritto di aver commesso un falso dichiarativo e che i delitti di falso dichiarativo sono catalogati dal codice penale a seconda della fase giudiziale in cui vengono rese le informazioni, mentre l’art. 378 cod. pen. richiede che le false informazioni siano rese allo specifico scopo di favorire l’autore di un reato (e non anche che quando questo rappresenti un effetto collaterale).

Premesso che i rilevati problemi di analogia in malam partem sono superabili, in relazione all’art. 371-bis cod. pen., intendendo per “pubblico ministero” l’ufficio e non la persona, problematico e forzato finisce, dunque, col risultare proprio l’inquadramento della vicenda di specie all’interno dell’art. 378 cod. pen.

Pertanto, dovendosi applicare tale ultima fattispecie, si sarebbe dovuta disporre la sospensione del procedimento in corso.

2.3. Con i motivi quinto e sesto si deduce, rispettivamente, violazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione della c.d. clausola di salvamento di cui all’articolo 384 cod. pen.

In appello si rilevava la sussistenza di tutti i presupposti per l’applicazione dell’art. 384 cod. pen. dal momento che D. P., deponendo contro chi pochi giorni prima aveva, secondo la ricostruzione degli investigatori, attentato alla sua vita, aveva ragione di temere di esporsi a un concreto pericolo di reiterazione di azioni lesive da parte di V..

La Corte d’appello respingeva la doglianza affermando che, ai fini dell’applicazione della disposizione in esame, il pericolo non può essere solo presunto o ipotetico ma deve potersi ricollegare a circostanze obiettive ed attuali.

Tuttavia la differenza tra l’art. 384 cod. pen. e l’art 54 cod. pen. è che, nel primo, la condotta non è punibile quando sia necessaria per evitare un danno effettivo e non, invece, un pericolo di un danno, come previsto dall’articolo 54 cod. pen. Ciò esclude che possa giustificarsi un reato commesso per il mero timore di un danno ma, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, non richiede una prova concreta del danno temuto, essendo sufficiente che il verificarsi dell’evento sia estremamente probabile.

Nel caso di specie gli stessi agenti di polizia giudiziaria avevano spiegato che una collaborazione del ricorrente avrebbe macchiato la sua figura rendendolo bersaglio della malavita.

Pertanto, essendo tale frase riportata addirittura nella sentenza di primo grado, la motivazione della Corte d’appello sarebbe sul punto viziata.

2.4. Con i motivi settimo e ottavo si eccepisce, rispettivamente, errata applicazione nella fattispecie di favoreggiamento personale e vizio di motivazione.

In appello era già stato eccepito che scarni erano gli elementi che avevano condotto ad identificare P.D. nella vittima dell’investimento (a sostegno di tale tesi militava unicamente l’esame ematico, gravemente compromesso, dei residui di sangue rinvenuti sul furgone di V. e sul luogo dell’investimento, mentre i fotogrammi erano equivoci e anche la polizia giudiziaria non aveva la certezza che si trattasse del ricorrente).

Non essendo certa la falsità delle dichiarazioni, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, dunque, viziata. Né la Corte si sarebbe interrogata sulle motivazioni per cui l’imputato avrebbe dichiarato il falso, occorrendo, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente agisca per favorire la persona sui cui vedono le investigazioni o ricerche.

2.5. Con i motivi nono e decimo si denuncia, rispettivamente, violazione di legge e vizio di motivazione in rapporto al trattamento sanzionatorio e, nella specie, alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

In appello, la difesa aveva chiesto, in via subordinata rispetto all’assoluzione, la rideterminazione della pena perché troppo severa, ravvisando un errore nel

mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

I Giudici di secondo grado, tuttavia, ritenevano inapplicabile l’art. 62-bis cod. pen., in ragione della personalità negativa dell’imputato, senza avvedersi che questa non rappresenta una ragione valida per il diniego e che si sarebbero potuti valorizzare gli elementi di cui si è detto a proposito dell’art. 384 cod. pen.

La motivazione sarebbe inoltre viziata poiché i Giudici di appello non avrebbero tenuto conto delle specifiche deduzioni sul punto dell’interessato.

3. Ha presentato ricorso anche A. N., sempre per il tramite dell’avvocato M. B., deducendo sei motivi anche testualmente corrispondenti ai corrispondenti primi sei motivi di D. P., all’esposizione dei cui contenuti, pertanto, si rinvia.

4. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla I. 18 dicembre 2020, e successive modificazioni, in mancanza di richiesta, nei termini ivi previsti, di discussione orale, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.

I ricorrenti, in replica alla requisitoria del Procuratore Generale, hanno presentato conclusioni scritte, anch’esse largamente sovrapponibili sul piano testuale, insistendo per l’accoglimento delle impugnazioni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ai fini della trattazione delle deduzioni inerenti alla qualificazione in diritto, appare opportuno premettere che dalle due sentenze di merito risulta quanto segue.

Il D. P. fu investito da tale R. V.; il fatto si svolse alla presenza del N.; il D. P., claudicante, sorretto dal N., dopo l’investimento, si recò con questi verso l’abitazione del primo; successivamente, entrambi si incontrarono con i fratelli V. (tra cui R.).

Ciò nondimeno, il D. P. dichiarava alla polizia giudiziaria di aver riportato lesioni a seguito di una caduta accidentale dal suo ciclomotore e N. avallava tale versione, che diceva essergli stata riferita dal D. P., negando di aver visto o sentito quest’ultimo il giorno dell’investimento.

2. Ciò precisato, i ricorsi – che per la parte comune saranno trattati congiuntamente – sono inammissibili.

2.1. Il primo motivo dei due ricorsi appare aspecifico nella misura in cui non si confronta con la motivazione della Corte d’appello, oltre che manifestamente infondato nei contenuti.

Infatti, vero è che il delitto di favoreggiamento personale rientra tra quelli per cui si procede a citazione diretta (art. 550 cod. proc. pen.) e che, quindi, nel caso di specie l’udienza preliminare fu disposta per errore.

Ciò però non toglie che – come replicato ad analoga deduzione dalla Corte d’appello – la richiesta di giudizio abbreviato avanzata dagli imputati durante la prima udienza dibattimentale venne proposta ritualmente e tempestivamente, senza che il precedente errore possa in alcun modo incidere su tale dato di fatto.

D’altronde, anche aderendo alle deduzioni difensive e a voler ritenere diversamente, al più, si sarebbe verificata una nullità relativa.

Di conseguenza – come rilevato dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta -, essa risulterebbe comunque sanata, essendosi la parte avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto nullo era preordinato (artt. 182, comma 1, e 183, lett. b), cod. proc. pen.).

Tanto è specificato anche dalla giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale la nullità del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato richiesto tardivamente non può essere dedotta dall’imputato che vi ha dato causa (Sez. 2, n. 45144 del 13/11/2008, omissis, Rv. 241977; Sez. 3, n. 15639 del 24/02/2011, omissis, Rv. 249995).

2.2. Di conseguenza, essendo la motivazione della sentenza esente da vizi, anche il secondo motivo dei ricorsi di D. P.e di N. è inammissibile.

2.3. Quanto al terzo motivo dei ricorsi, è innegabile che l’art. 378 cod. pen. ha una struttura (a forma libera e causalmente orientata) diversa rispetto a quella delle fattispecie di falso dichiarativo (artt. 371-bis cod. pen. e seguenti) e che storicamente nacque come strumento di tutela dell’attività giudiziaria rispetto ad aggressioni provenienti dall’esterno, piuttosto che dall’interno del processo (tale

dato ne giustificava, peraltro, una parziale dislocazione topografica all’interno del titolo del codice penale).

Nemmeno sarebbe eccentrica, in sé presa, la lettura proposta in sede difensiva dell’art. 371-bis cod. pen. (che intende il pubblico ministero come ufficio e non come persona), ove si reputi superabile l’argomento – legato alla voluntas legislativa – desunto dagli invero ormai risalenti lavori preparatori e, in particolare, dall’espulsione, dal testo definitivo della disposizione, dell’inciso concernente la delega alla polizia giudiziaria.

Costituisce, tuttavia, interpretazione ormai comune anche in dottrina e da tempo sedimentata in giurisprudenza quella secondo cui le false informazioni alla polizia giudiziaria, anche quando opera su delega del pubblico ministero, integrano l’ipotesi dell’art. 378 cod. pen. (per tutte, Sez. 5, n. 37306 del 14/07/2010, Rv. 248641. Vd., tuttavia, già Sez. 1, n. 4430 del 05/07/1982, dep. 1983, omissis, Rv. 158996), diversamente determinandosi, oltretutto, un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle ipotesi in cui la polizia giudiziaria agisca motu proprio.

E resta il fatto che tale diritto vivente è stato “normativizzato” per effetto dell’intervento della Corte costituzionale che, nelle lontane sentenze n. 416 del 1996 e n. 75 del 2009, ricondusse nell’alveo applicativo della c.d. clausola di salvamento (art. 384, comma 1, cod. pen.) la sotto-fattispecie in oggetto, altrettanto disponendo (sent. n. 101 del 1999) in relazione all’art. 376 cod. pen. (ritrattazione), il cui testo fu infatti successivamente interpolato dal Legislatore aggiungendo appunto il richiamo all’art. 378 cod. pen.

Con tale pacifica lettura il motivo non si confronta, risultando alla resa dei conti manifestamente infondato.

Infine, non rileva la deduzione secondo cui il dolo dell’art. 378 cod. pen. consiste nella rappresentazione e volontà di aiutare taluno (come riflesso della già evocata “proiezione in chiave causale” della fattispecie), piuttosto che nel voler recare mero intralcio alla giustizia, come – si assume – nel caso di specie. Infatti, essendo il favoreggiamento a dolo generico – e non specifico -, la fattispecie strutturalmente tollera l’atteggiarsi dell’elemento soggettivo anche in forma eventuale, con la conseguenza che le due proiezioni finalistiche (voler aiutare taluno e voler recare intralcio alla giustizia), le quali nella vicenda concreta peraltro coincidono, non si escludono l’un l’altra neppure sul piano teorico.

2.4. Di conseguenza, la motivazione della sentenza è esente da vizi, sicché anche il quarto motivo dei ricorsi di D. P.e di N. risulta inammissibile.

2.5. Il quinto motivo dei ricorsi, relativo alla mancata applicazione della c.d. clausola di salvamento, è meramente reiterativo e non tiene conto della replica della Corte d’appello la quale specifica che la disposizione non può essere invocata sulla base del mero timore, anche solo presunto o ipotetico, di un danno, dovendo essere, piuttosto, collegato a circostanze obiettive ed attuali (in tal modo, la sentenza impugnata si conforma al pacifico orientamento di questa Corte, secondo cui la causa di esclusione della punibilità, prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un’accusa penale nei suoi confronti, a condizione che tale timore attenga a un rapporto di derivazione del danno dal contenuto della deposizione rilevabile sulla base di un criterio di immediata ed inderogabile consequenzialità e non di semplice supposizione. Di recente, Sez. 6, n. 21987 del 05/04/2023, omissis, Rv. 284709).

A monte e più radicalmente, i ricorrenti trascurano che la scusante dell’art. 384 cod. pen. riferisce testualmente il danno ai beni della «libertà» e dell’«onore», perché mira a risolvere, a favore dell’imputato, il conflitto interiore che si crea quando la rappresentazione della verità ingeneri il (concreto) rischio di una condanna o di un procedimento penale per sé o per un prossimo congiunto (nemo tenetur se detegere).

Pertanto, la fattispecie non risulta affatto pertinente nel caso di specie in cui, secondo le stesse prospettazioni difensive, i ricorrenti avrebbero dichiarato il falso per il timore di ritorsioni da parte dell’attentatore del D. P. (più coerente sarebbe stato, al limite, invocare uno stato di necessità, ma dell’art. 54 cod. pen. sarebbe comunque difettato il requisito dell’attualità del pericolo).

2.6. In conseguenza di quanto rilevato, la motivazione della sentenza risulta esente da vizi, sicché anche il sesto motivo dei ricorsi di D. P. e di N. deve dichiararsi inammissibile.

2.7. Il settimo motivo del ricorso di D. P. esibisce uno sviluppo logico invero poco chiaro ed appare, già per tale ragione, generico.

Peraltro, nella parte in cui revoca in dubbio l’identificazione dell’imputato quale vittima dell’investimento ad opera del V. e, correlativamente, la falsità delle dichiarazioni da questo rese, è versato in fatto e tende a sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimità.

Per la parte in cui riproduce le censure in tema di dolo, è inammissibile per le considerazioni già esposte in precedenza a proposito della configurazione della fattispecie di cui all’art. 378 cod. pen. in termini di dolo generico: ai fini della sussistenza del reato, essendo sufficiente che il reo si rappresenti – come nella vicenda concreta -, di aiutare, attraverso le false dichiarazioni, qualcuno ad eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria o a sottrarsi alle ricerche di questa e non richiedendosi, per contro, che agisca a tale scopo precipuo.

2.8. I giudici di secondo grado replicano comunque ai dubbi concernenti l’identificazione del D. P. quale vittima dell’investimento affermando che il fatto risulta accertato, senza che al riguardo siano dedotti specifici vizi del ragionamento, cosicché l’ottavo motivo del ricorso di D. P. s’appalesa inammissibile.

2.9. Quanto al nono motivo del ricorso di D. P., esso è inammissibile perché generico.

2.10. Premesso, peraltro, che la pena concretamente inflitta, seppur all’esito della riduzione per il rito, è tutt’altro che eccessiva (sei mesi di reclusione), la Corte d’appello ha motivato sulla base della personalità negativa degli imputati, comprovata dai precedenti penali a carico degli stessi nonché dell’insussistenza di situazioni meritevoli di apprezzamento positivo, in linea, dunque, con il costante

insegnamento di questa Corte per cui il mancato riconoscimento delle circostanze generiche si risolve in un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, sempre che – come nel caso di specie – sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, omissis, Rv.271269).

Anche il decimo motivo del ricorso di D. P., inerente al vizio di motivazione sul punto, risulta, in conclusione, inammissibile.

3. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

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