In caso di “contestazioni a catena”, quali presupposti richiede la retrodatazione del termine di custodia cautelare?

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Cass. pen., sez. V, 25/09/2025 (ud. 25/09/2025, dep. 15/10/2025), n. 33871 (Pres. Miccoli, Rel. Scarlini)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava cosa presuppone la retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. in caso di “contestazioni a catena”.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

Il Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, confermava un provvedimento con il quale il medesimo Tribunale aveva rigettato un’istanza di declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere avanzata ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen..

Ciò posto, avverso codesta decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’indagato il quale, con un unico motivo, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

Il Supremo Consesso riteneva il ricorso suesposto infondato.

In particolare, tra le argomentazioni che inducevano gli Ermellini ad addivenire a siffatto esito decisorio, era richiamato quell’orientamento nomofilattico secondo il quale, in tema di c.d. “contestazioni a catena”, la retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.[1] presuppone che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza coercitiva, e tale condizione non sussiste nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con formula “aperta”, che indichi la permanenza del reato anche dopo l’emissione del primo provvedimento cautelare, a meno che gli elementi acquisiti non consentano di ritenere l’intervenuta cessazione della permanenza quanto meno alla data di emissione della prima ordinanza (Sez. 2, n. 16595 del 06/05/2020; vd. anche Sez. 1 -, Sentenza n. 20135 del 16/12/2020, in cui si afferma che il provvedimento coercitivo che limita la libertà personale dell’indagato per il primo fatto di reato determina una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta partecipativa, la protrazione della quale deve tuttavia essere desunta da concreti elementi dimostrativi).

I risvolti applicativi

In tema di “contestazioni a catena”, la retrodatazione del termine di custodia cautelare ex art. 297, comma 3, c.p.p. è ammessa solo se i fatti della nuova ordinanza sono anteriori alla prima, ma ciò non vale per reati associativi a permanenza aperta, salvo che vi sia la prova della cessazione della condotta prima della prima misura.

[1]Ai sensi del quale: “Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 5 Num. 33871 Anno 2025

Presidente: MICCOLI GRAZIA ROSA ANNA

Relatore: SCARLINI ENRICO VITTORIO STANISLAO

Data Udienza: 25/09/2025

Data Deposito: 15/10/2025

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

GRAZIA ROSA ANNA MICCOLI Sent. n. sez. 1364/2025

– Relatore –

T. M.

M. T. B.

ha pronunciato la seguente

sul ricorso proposto da:

Udita la relazione svolta dal Consigliere Enrico Vittorio Stanislao Scarlini;

sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale GABRIELE MAZZOTTA

che chiede il rigetto del ricorso riportandosi alla requisitoria in atti.

Udito il difensore:

L’Avv. G. V. Accorretti si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 24 febbraio 2025, il Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, confermava il provvedimento con il quale il medesimo Tribunale aveva rigettato l’istanza di declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere avanzata nell’interesse di L. P. ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.

Misura disposta:

– con un primo provvedimento del 19 settembre 2018, eseguito l’8 ottobre 2018, per due delitti di estorsione, tentata e consumata, aggravati entrambi ai sensi dell’art. 416 bis 1 cod. pen., consumati in Sant’Antimo fino al 12 ottobre 2017;

– con una seconda ordinanza, del 26 marzo 2020, eseguita il 9 giugno 2020, per il delitto associativo di cui all’art. 416 bis cod. pen. e per i reati fine inerenti la detenzione ed il porto di armi e un episodio di violazione del disposto dell’art. 512 bis cod. pen.

Nell’istanza il difensore del prevenuto aveva chiesto la retrodatazione degli effetti della

seconda ordinanza alla data di emissione ed esecuzione della prima, con conseguente

scarcerazione del P. per l’intervenuta decorrenza dei termini.

1.1. In risposta ai dedotti motivi di censura, il Tribunale, quale giudice del riesame, osservava quanto segue.

1.1.1. Ricordava, innanzitutto, che il giudice che aveva pronunciato l’ordinanza impugnata (sempre il Tribunale di Napoli, in sede di giudizio di merito di prime cure) aveva rilevato come l’istanza presentata costituisse la reiterazione di altra in precedenza già rigettata, rispetto alla quale l’unico elemento di novità consisteva nel fatto che, secondo la difesa, lo stesso Tribunale di Napoli, decidendo nel merito sull’imputazione associativa con sentenza del 9 maggio 2024 n. 5321, aveva perimetrato la responsabilità del L. P., quale “apicale” della consorteria camorristica omonima al solo, assai breve, periodo intercorrente fra il gennaio ed il febbraio 2017.

Un dato, però, che – secondo lo stesso Tribunale che aveva deciso in prime cure sull’istanza ex art. 297 cod. proc. pen. – non corrispondeva a quanto dallo stesso Tribunale, nella sentenza di merito citata, aveva affermato, posto che, per un verso, non era meglio definita, cronologicamente, la contestazione “aperta” del delitto associativo e, per l’altro, che non si era affatto concluso che P., quando era stato sostituito al vertice del clan omonimo da Amodio Ferriero, non ne fosse rimasto, tuttavia, un esponente di vertice.

1.1.2. Così che – già formatosi, con il rigetto della precedente istanza, il giudicato cautelare sulla non anteriorità della condotta associativa rispetto all’emissione della prima ordinanza – tale conclusione non aveva trovato smentita nella motivazione della sentenza, di merito, sul delitto associativo oggetto della seconda ordinanza custodiale applicata a L. P.ca, i cui effetti (e termini di custodia) si era chiesto fossero retrodatati alla prima. Il Tribunale del riesame – a conferma di quanto già affermato dal primo giudice – osservava, ancora, come, dalla già citata sentenza di merito sull’accusa associativa, fosse,

invece, possibile evincere che il prevenuto ed il Ferriero si erano, più volte, succeduti nel ruolo apicale operativo della consorteria P., senza che, pertanto, ciò comportasse l’allontanamento definitivo di L. P. dal sodalizio.

Così che, in conclusione, non poteva sostenersi, secondo il Tribunale del riesame, che la partecipazione del P. al sodalizio si fosse interrotta prima del febbraio 2018, come sostenuto dalla difesa del P., anche considerando il contenuto della conversazione intercettata il 29 dicembre 2017 in cui gli interlocutori (dimostratisi a perfetta conoscenza delle dinamiche e della operatività del clan P.) avevano lungamente discorso del P. (e del di lui fratello L.), riconoscendogli quel ruolo apicale che, del resto, al medesimo (ed al fratello) spettava come figli di quel P. P., che era lo storico referente della cosca che portava il suo nome.

Un ruolo presente ma certamente proiettato nel tempo, visti i presupposti, e che, pertanto, non vi erano ragioni per ritenerlo cessato neppure nell’ottobre del 2018, quando L. P. era stato nuovamente tratto in arresto.

Così proiettando la permanenza del delitto associativo oltre alla data di emissione della prima ordinanza custodiale.

2. Propone ricorso l’imputato, a mezzo del proprio difensore Avv. V. V. A., deducendo, con l’unico motivo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione.

Il Tribunale aveva motivato la propria decisione in base all’assunto che la difesa non aveva assolto all’onere di dimostrare la cessazione della permanenza del delitto associativo ascritto al ricorrente in data anteriore all’esecuzione della prima misura, l’8 ottobre 2018.

Così però trascurando il fatto che, nel relativo giudizio di merito (sul delitto associativo contestato con la seconda ordinanza), non era stato raccolto alcun concreto elemento di prova da cui potesse desumersi la partecipazione dell’imputato alla consorteria mafiosa dopo la data indicata.

Omettendo inoltre di considerare gli elementi dedotti dalla difesa a conferma del suo allontanamento dal contesto mafioso.

Doveva così ritenersi che gli elementi che avevano giustificato la seconda ordinanza fossero già presenti al momento dell’emissione della prima (Sez. U. R.) e che i fatti oggetto della seconda ordinanza fossero già stati consumati prima dell’emissione della prima (Sez. U. L.).

Nell’ambito della prima indagine, nota come “…” (uno stralcio della indagine “…” e di altri procedimenti iscritti contro ignoti), era stata disposta, a seguito dell’informativa dell’8 febbraio 2012, l’intercettazione delle utenze dei familiari del prevenuto, assumendo che tali soggetti operavano sotto l’egida di un clan camorristico.

In altra informativa, del 2011, poi si era ipotizzata l’esistenza di un clan P. in cui l’imputato era inserito. E nell’informativa del 14 gennaio 2013 si era ipotizzato che P. ne rivestisse anche una posizione apicale.

Tutte informative contenute in procedimenti pendenti presso la medesima autorità giudiziaria.

Aveva risposto, pertanto, ad una mera valutazione opportunistica, la decisione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli di non procedere, già nel 2018, nei confronti del P. anche per il delitto associativo.

Agli elementi già ricordati si aggiungevano poi le emergenze delle attività di intercettazione, svolte nel 2016 e nel 2017, le dichiarazioni di C. L., ancora del 2017, le dichiarazioni di F. P. del 2016 e l’affermazione dell’operante, nel dibattimento di prime cure sul delitto associativo qui contestato, che, rispetto alle indagini che avevano dato luogo alla seconda ordinanza, l’ultima informativa era del 2019.

Tanto più che gli elementi di prova del delitto associativo erano stati tratti da una attività intercettiva effettuata sull’autovettura di tale L. V. a partire dal 2016.

Ciò detto in ordine al requisito della desumibilità degli elementi di fatto che avrebbero potuto consentire di contestare al P. l’ipotesi associativa già all’epoca della prima ordinanza custodiale, quanto all’ulteriore requisito – per l’applicazione della retrodatazione deli effetti prevista dall’art. 297 cod. proc. pen. – della anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza rispetto all’emissione della prima, gli stessi erano perfettamente ricavabili da quanto affermato dallo stesso Tribunale di Napoli, nella sentenza di merito del 9 maggio 2024 n. 5321, laddove non si era potuta evidenziare alcuna condotta concreta che consentisse di affermare la partecipazione di L. P. alle attività del sodalizio mafioso in data successiva al 19 settembre 2018.

Condotta che, così, doveva considerarsi esaurita nell’anno 2017.

Di mero stile erano state le osservazioni sul punto del Tribunale nella ordinanza impugnata.

Si era, infatti, omesso di considerare che:

– proprio nel 2017, P. aveva iniziato, anche in considerazione degli impegni di accudimento dei figli, a collaborare con uno studio tecnico quale geometra;

– in uno dei due tronconi processuali in cui si era suddiviso il procedimento relativo all’imputazione associativa in oggetto era stata indicata, quale data di cessazione della permanenza del medesimo, proprio l’anno 2018.

Era comunque onere dell’accusa dimostrare l’ulteriore operatività del clan, dopo tale data.

Lo stesso collaboratore di giustizia C. L. aveva riferito che il fratello del prevenuto si era con lui lamentato per avere abbandonato il contesto associativo a partire da una riunione del febbraio 2017.

Allontanamento che si era accertato anche in un diverso processo celebrato davanti all’autorità giudiziaria napoletana, posto che era emerso come al referente L. P., fratello del prevenuto, si fossero sostituiti, nel 2017, altri soggetti.

Né il prevenuto risultava coinvolto in altri delitti fine dell’associazione, consumati nel 2018 (come si evince dai reati contestati ai capi 28, 29 e 31 della presente rubrica).

Di nessun rilievo era poi la conversazione del 29 dicembre 2017, citata nell’ordinanza impugnata, sia perché anteriore all’emissione della prima misura sia perché non erano stati raccolti ulteriori elementi per affermare che il nuovo referente, A. F., non fosse subentrato a pieno titolo, e non solo in loro sostituzione, ai componenti la famiglia P..

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso presentato nell’interesse di L. P. non merita accoglimento.

1. Deve, innanzitutto, ricordarsi che l’invocato art. 297 cod. proc. pen., al terzo comma, così dispone:

3. Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma.

Pertanto, per aversi retrodatazione degli effetti di una seconda ordinanza custodiale al momento dell’emissione della prima – con la conseguente retrodatazione dei termini di durata della seconda misura – deve sussistere, fra i reati contestati, la connessione prevista

dall’art. 12 lett. b) e c) del codice di rito e i reati contestati nella seconda ordinanza dovevano essere “desumibili” al momento della richiesta della prima.

Se ne deduce che quando, come nel caso concreto, oggetto della seconda ordinanza sia un delitto associativo (o altro delitto permanente) la cui consumazione non sia ancora cessata al momento della emissione della prima ordinanza custodiale, non potrà farsi applicazione della citata norma posto che non potrà ancora giudicarsi né la desumibilità di tale delitto (nel suo corretto perimetro cronologico) a tale data né la connessione con i delitti contestati nella prima ordinanza (verifica che, ancora, necessita della precisazione, anche in termini temporali, dell’accusa).

Del resto in tal senso è la sentenza L. delle Sezioni unite (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 10/04/2007, Rv. 235910 – 01), citata anche nel ricorso, in cui appunto si è affermato che – ai fini della retrodatazione dei termini di decorrenza della custodia cautelare ai sensi dell’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. – il presupposto dell’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima, non ricorre allorché il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza.

1.1. In evidente applicazione del principio di diritto fissato dalle Sezioni unite L. si è così ulteriormente precisato che, in tema di c.d. “contestazioni a catena”, la retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. presuppone che i fatti oggetto dell’ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza coercitiva, e tale condizione non sussiste nell’ipotesi in cui l’ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con formula “aperta”, che indichi la permanenza del reato anche dopo l’emissione del primo provvedimento cautelare, a meno che gli elementi acquisiti non consentano di ritenere l’intervenuta cessazione della permanenza quanto meno alla data di emissione della prima ordinanza

(Sez. 2, n. 16595 del 06/05/2020, omissis, Rv. 279222 – 01; vd. anche Sez. 1 -, Sentenza n. 20135 del 16/12/2020, dep. 20/05/2021, omissis, r. 281283 – 01 in cui si afferma che il provvedimento coercitivo che limita la libertà personale dell’indagato per il primo fatto di reato determina una mera presunzione relativa di non interruzione della condotta partecipativa, la protrazione della quale deve tuttavia essere desunta da concreti elementi dimostrativi).

Se ne deduce pertanto che la contestazione del delitto associativo “in permanenza attuale” può e deve essere verificata nel suo corretto perimetro temporale – come si è fatto nell’ordinanza impugnata – anche quando venga sollecita la retrodatazione degli effetti di una misura di cautela personale ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen.

2. Il Tribunale del riesame, nell’ordinanza impugnata, non si è sottratto a tale approfondimento, che, tuttavia, muoveva da un presupposto specifico, la sentenza di merito pronunciata dal Tribunale di Napoli sull’ipotesi associativa contestata con la seconda ordinanza, visto che analoga istanza era già stata rigettata proprio negando la cessazione della permanenza del delitto associativo in data anteriore alla emissione della prima cautela. L’unico dato nuovo era, appunto, la ricordata pronuncia di merito del Tribunale di Napoli.

Pronuncia che ben può incidere anche sul giudizio cautelare ex art. 297 cod. proc. pen., posto che si è già avuto modo di affermare che, in tema di misure cautelari personali, una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale, anche in sede di riesame o di appello, deve mantenersi nell’ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all’affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica, ma anche per tutte le circostanze del fatto, non potendo essere queste apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela (Sez. 3, n. 45913 del 15/10/2015, omissis, Rv. 265544 – 01 in una fattispecie nella quale la Corte, adita avverso la conferma di provvedimento di rigetto di istanza di retrodatazione ex art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., ha affermato la vincolatività per il giudice dell’appello cautelare dell’accertamento, operato dal giudice del merito, della data di commissione del fatto legato da connessione qualificata ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen., per escluderne l’anteriorità rispetto a quello posto a base del primo titolo custodiale).

2.1. E così il Tribunale del riesame nel riportarsi alla predetta decisione di merito – oltre a considerare che la data di cessazione della permanenza del delitto associativo non era stata ulteriormente precisata rispetto alla imputazione “in permanenza attuale” – osservava come in nessuna parte del proprio percorso argomentativo, il Tribunale che aveva deciso nel merito sul delitto associativo avesse limitato (fino) al 2018 (o al 2017 come pretende il ricorso) il ruolo apicale della consorteria riconosciuto in capo a L. P..

Nella citata sentenza, infatti, si era dato atto del succedersi in tale funzione direttiva del P. e di A. F., anche in corrispondenza temporale dei rispettivi periodi di detenzione (che ne limitavano, ovviamente, la concreta operatività).

E si era anche accertato come L. P., ed il fratello L., fossero i naturali referenti della cosca anche in virtù del fatto che il loro padre P. ne era stato il primo e storico vertice, tanto da dargli il nome, visto che era conosciuto come il clan “P.”.

E, sempre nella sentenza di merito (già prodotta agli atti seppure non in allegato al ricorso), proprio al fine di illustrare il ruolo di L. P.ca nel sodalizio, si rinviava alla conversazione intercorsa il 29 dicembre 2017 fra F. D. L. e A. C.  (che si aggiungeva come ulteriore riscontro a quanto riferito dai collaboratori di giustizia C. L. e F. P.) che, al corrente delle dinamiche del clan, lamentavano la criticità derivante proprio dalla condotta dei due figli di P., L.  appunto e L., che avevano “incrinato nel tempo gli equilibri ed i rapporti con gli altri esponenti del sodalizio, perseguendo soltanto i propri interessi economici”, interessi che, invece, dovevano fare capo all’intera consorteria.

Lamentava ancora D. L. che non si stavano comportando, L. e L. P.,

come il padre, così da mantenere gli equilibri interni al clan, così anche da evitare le prime

defezioni (dei già citati L.e F. P.).

Si ricordava anche, nella medesima conversazione, come proprio L. P. avesse sostituto A. F. al vertice del clan e, ancora una volta, come i due fratelli non fossero all’altezza del padre (citando alcune vicende che assumeva lo dimostrassero).

Una lunga conversazione, che veniva riportata per ampi stralci, e che aveva consentito al Tribunale di fissare l’ingresso di L. P., nel sodalizio del padre, a partire dal 2009 (quando P. era stato tratto in arresto) e continuativamente fino alle date dei più recenti accertamenti, con la sola precisazione che al medesimo poteva attribuirsi il ruolo direttivo solo a partire dalla sua scarcerazione del 2016. Peraltro, aggiungendosi, nella sentenza di merito, che anche prima di tale scarcerazione, L. P. aveva sollevato obiezioni alla gestione del sodalizio da parte del F., che poi sostituirà una volta tornato in libertà.

Così che priva di ogni manifesta illogicità è la considerazione del Tribunale del riesame, nell’ordinanza oggi impugnata, circa la conferma, prima dell’intraneità, poi del ruolo di vertice del P. nel sodalizio ed infine della mancata cessazione della condotta associativa anche nei periodi di sofferta detenzione (a partire quindi dall’ottobre 2018, già una data posteriore alla emissione della prima ordinanza).

Il motivo di ricorso argomentato su tale punto – la cessazione della permanenza del delitto associativo in data anteriore all’emissione dell’ordinanza del 208 – è pertanto infondato.

3. Né devono affrontarsi le argomentazioni mosse nel ricorso in ordine alla “desumibilità” della consumazione del delitto associativo al momento della emissione della prima ordinanza, risultando le medesime prive di rilievo rispetto all’ordinanza impugnata che ha concluso comunque, dalla citata sentenza di merito, la non anteriorità del medesimo a tale momento.

In ogni caso si deve ricordare che:

– in tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, per l’anteriore “desumibilità” dagli atti del fatto oggetto della seconda ordinanza, emessa in un diverso procedimento e per fatti diversi e non legati da un rapporto di connessione qualificata con i primi, è necessario che il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sussista sin dal momento di emissione del primo provvedimento, non essendo sufficiente a tal fine la mera esistenza della notizia del fatto-reato, né che la successiva ordinanza si fondi su elementi probatori già presenti nella prima, potendo gli stessi non manifestare sin dall’inizio il loro significato in modo immediato ed evidente (Sez. 3, n. 20002 del 10/01/2020, omissis, Rv. 279291 – 01);

– in tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, la nozione di “desumibilità dagli atti” non è integrata dalla mera “conoscenza o conoscibilità” dei fatti che hanno condotto all’adozione della seconda misura, presupponendo invece la sussistenza di una situazione indiziaria di tale gravità e completezza da legittimare l’adozione della seconda misura cautelare fin dal momento in cui è stata adottata la prima (Sez. 6, n. 54452 del 06/11/2018, omissis, Rv. 274752 – 01).

4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso, in Roma il 25 settembre 2025.

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