Quando può essere considerata la buona fede nei reati contravvenzionali?

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Cass. pen., sez. I, 12/02/2025 (ud. 12/02/2025, dep. 20/02/2025), n. 7228 (Pres. De Marzo, Rel. Russo)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava quando può rilevare la buona fede nei reati contravvenzionali.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

Il Tribunale di Siena, con rito immediato derivante da opposizione a decreto penale, condannava l’imputato alla pena di 6 mesi di arresto e 1.000 euro di ammenda per il reato dell’art. 4 l. 18 aprile 1975, n. 110, per aver portato fuori dalla propria abitazione un machete, mentre, dal canto suo, la Corte di Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, concedeva all’imputato la sospensione condizionale della pena, confermando, per il resto, la sentenza di primo grado.

Ciò posto, avverso la sentenza emessa dai giudici di secondo grado ricorreva per Cassazione il difensore dell’accusato che, tra i motivi ivi addotti, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione perché, secondo il legale, nel comportamento tenuto dall’imputato sarebbe comunque mancato l’elemento soggettivo del reato, avendo l’imputato agito nella piena certezza che il locale commerciale fosse un’appartenenza dell’abitazione.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

Gli Ermellini ritenevano il motivo suesposto infondato.

In particolare, tra le argomentazioni che inducevano i giudici di piazza Cavour ad addivenire a siffatto esito decisorio, era richiamato quell’orientamento nomofilattico secondo il quale, nei reati contravvenzionali, in cui per l’accertamento di responsabilità è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa, la eventuale rilevanza di una situazione di buona fede deve dipendere “da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta” (Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015).

Difatti, per la Corte di legittimità, siffatto fattore positivo difettava nel caso di specie.

I risvolti applicativi

Nei reati contravvenzionali, la buona fede rileva solo se un comportamento dell’autorità amministrativa ha indotto l’agente a credere scusabilmente nella liceità della sua condotta.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 1 Num. 7228 Anno 2025

Presidente: DE MARZO GIUSEPPE

Relatore: RUSSO CARMINE

Data Udienza: 12/02/2025

Data Deposito: 20/02/2025

PRIMA SEZIONE PENALE

– Presidente –

FILIPPO CASA

MARIA GRECA ZONCU

DANIELE CAPPUCCIO

– Relatore –

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Z. G. nato a … il …

avverso la sentenza del 16/05/2024 della Corte d’appello di Firenze

udita la relazione del Consigliere Carmine Russo;

lette le conclusioni del PG, Marco Dall’Olio, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso quanto alla mancata valutazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen, e l’inammissibilità per il resto.

lette le conclusioni del difensore dell’imputato, avv. A. C., che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 19 settembre 2022 il Tribunale di Siena, in rito immediato derivante da opposizione a decreto penale, ha condannato G. Z. alla pena di 6 mesi di arresto e 1.000 euro di ammenda per il reato dell’art. 4 l. 18 aprile 1975, n. 110, per aver portato fuori dalla propria abitazione un machete, fatto avvenuto il 16 luglio 2021.

Con sentenza del 16 maggio 2024 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha concesso all’imputato la sospensione condizionale della pena, e confermato, per il resto, la sentenza di primo grado.

2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato, per il tramite del difensore, con i seguenti motivi di seguito descritti nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, perché l’imputato, in realtà, non ha mai portato l’arma fuori dalla propria abitazione, atteso che l’arma è stata trovata all’interno della rivendita di tabacchi gestita dall’imputato, che è un locale pertinenziale dell’abitazione principale in cui egli vive, per cui l’arma – che fu consegnata dal corriere proprio in quel locale in cui l’imputato lavora – non è mai uscita da tale luogo, e pertanto non è mai uscita nella sostanza da un locale pertinenziale all’abitazione.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, perché il locale in cui è stato trovato il machete era una “appartenenza” della abitazione nel significato di cui all’art. 4 l. n. 110 del 1975, perché in diritto civile le “appartenenze” sono i luoghi dipendenti dall’abitazione adibiti

permanentemente a servizio della stessa; il rapporto pertinenziale in cui si risolve la “appartenenza” può costituirsi tra due immobili, anche se essi conservano la propria autonomia funzionale; nel caso in esame, che il locale commerciale, in cui è stato trovato il machete, fosse a servizio dell’abitazione

è emerso nell’istruttoria dall’assenza di un bagno all’interno della tabaccheria, per cui l’imputato, quando aveva la necessità di farne uso, doveva ricorrere necessariamente all’abitazione; la distanza lineare tra il locale tabaccheria e l’abitazione è stata quantificata dal testimone della difesa C. in circa 1.5 metri, ne emerge che abitazione e locale commerciale erano, di fatto, un corpo unico; altro elemento di cui non si è tenuto conto nella sentenza impugnata è che il machete non era destinato alla vendita, circostanza emersa nel corso del processo, ammessa dall’imputato e non smentita da alcuno.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, perché nel comportamento tenuto dall’imputato mancherebbe comunque l’elemento soggettivo del reato, perché l’imputato ha agito nella piena certezza che il locale commerciale fosse un’appartenenza dell’abitazione; inoltre, l’imputato era tranquillizzato dalla circostanza che la licenza commerciale del proprio locale ricomprendesse anche la possibilità di detenere articoli di ferramenta, tra cui deve ritenersi senz’altro ricompreso il machete.

Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione perché la sentenza di appello avrebbe dovuto porsi d’ufficio il problema della possibilità di ritenere applicabile la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, i cui presupposti in fatto sarebbero ricavabili dalla stessa decisione impugnata che, concedendo la pena sospesa, ha riconosciuto l’insussistenza di elementi ostativi alla prognosi di non recidivanza.

Con il quinto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione perché la sentenza impugnata ha ritenuto che il reato non si fosse prescritto, ma, in realtà, posto che il machete era stato consegnato dal corriere al ricorrente nel corso dell’anno 2010, e che lo stesso non è mai stato spostato dal locale commerciale in cui fu consegnato, deve ritenersi che il reato sia stato commesso in quel lontano anno 2010, per cui esso deve ritenersi prescritto.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore generale, Marco Dall’Olio, ha concluso per l’accoglimento del ricorso quanto alla mancata valutazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen, e l’inammissibilità per il resto.

Il difensore dell’imputato, avv. A. C., ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

1. Il primo e il secondo motivo possono essere affrontati congiuntamente, perché pongono entrambi la medesima questione del se il locale destinato a vendita carburanti e vendita tabacchi, in cui dietro la cassa è stato trovato il machete oggetto di questo processo, avrebbe dovuto essere ritenuto una pertinenza dell’abitazione dell’imputato.

Entrambe le sentenze di merito hanno concluso nel senso che il locale non fosse una pertinenza, perché la evidente, e pacifica, destinazione commerciale lo rendeva un immobile non a servizio dell’abitazione.

Il ricorso deduce che il nesso di “appartenenza” può costituirsi tra due immobili anche se ciascuno di essi conserva la propria autonomia funzionale, e deduce che nel caso concreto il rapporto di pertinenzialità tra i due immobili deriva dalla circostanza che nel locale commerciale non è previsto un bagno né una area relax, per cui il ricorrente, quando aveva bisogno di usare il bagno o di riposare, era costretto a recarsi nell’abitazione.

L‘argomento è infondato, in quanto, per essere considerato pertinenza di una abitazione, un locale deve essere posto a servizio della stessa, laddove, a seguire il ragionamento articolato in ricorso, sarebbe stata la abitazione ad essere al servizio del locale commerciale, e non viceversa.

Il ricorso deduce che la distanza lineare tra il locale commerciale e l’abitazione è stata quantificata da un testimone della difesa in circa 1.5 metri, e che quindi abitazione e locale commerciale erano, di fatto, un corpo immobiliare unico, ma l’argomento è infondato, perché la distanza tra gli immobili non è sufficiente per ritenere sussistente un rapporto pertinenziale tra essi, che dipende dalla oggettiva destinazione del bene accessorio ad un rapporto funzionale con quello principale, e dalla volontà soggettiva di destinazione della res al servizio del bene principale da parte di chi abbia la disponibilità giuridica ed il potere di disporre di entrambi i beni, accertamento di fatto che compete al giudice del merito e che non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 2, n. 20911 del 21/07/2021, Rv. 662050 – 01: l’accertamento del rapporto pertinenziale tra due immobili – che comporta un giudizio di fatto demandato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da congrua e corretta motivazione – presuppone l’esistenza, oltre che di un unico proprietario, di un elemento oggettivo, consistente nella oggettiva destinazione del bene accessorio ad un rapporto funzionale con quello principale e di un elemento soggettivo, consistente nell’effettiva volontà, espressa o tacita, di destinazione della “res” al servizio o all’ornamento del bene principale, da parte di chi abbia la disponibilità giuridica ed il potere di disporre di entrambi i beni).

Il ricorso deduce che la sentenza impugnata non ha tenuto conto della circostanza che il machete era conservato dietro la cassa del locale commerciale ma non era destinato alla vendita, circostanza emersa nel corso del processo, ammessa dall’imputato e non smentita da alcuno, ma l’argomento è inammissibile, in quanto è del tutto irrilevante, ai fini della integrazione del reato, che l’arma fosse o meno destinata alla vendita, non essendo la destinazione alla cessione prevista nella struttura della fattispecie penale.

2. Il terzo motivo, che deduce sull’inesistenza dell’elemento soggettivo del reato, è infondato.

Il ricorso deduce che mancherebbe l’elemento soggettivo del reato perché l’imputato ha agito nella piena certezza che il locale commerciale fosse un’appartenenza dell’abitazione. L’argomento è infondato, perché, nei reati contravvenzionali, in cui per l’accertamento di responsabilità è sufficiente

l’elemento soggettivo della colpa, la eventuale rilevanza di una situazione di buona fede deve dipendere “da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta” (Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015, omissis, Rv. 265424 – 01), che qui all’evidenza manca.

Il ricorso deduce che l’imputato era tranquillizzato dalla circostanza che la licenza commerciale del proprio locale ricomprendesse anche la possibilità di detenere articoli di ferramenta, ma l’argomento è inammissibile, perché introdotto in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

Nella lettura della norma della lettera e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen., secondo cui il vizio deve risultare dal testo della motivazione “ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, la giurisprudenza di legittimità, che in un primo momento aveva ritenuto possibile soddisfare l’onere mediante diverse modalità, compresa la mera indicazione precisa della posizione dell’atto all’interno del fascicolo del giudice del merito (Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, omissis, Rv. 260994), ha poi progressivamente assunto un indirizzo di maggior rigore e, richiamando il principio processual-civilistico dell’autosufficienza del ricorso, ha ritenuto che non sia sufficiente limitarsi a richiamare atti del processo specificamente indicati, ma che sia necessaria la loro integrale trascrizione o allegazione al ricorso (Sez. 2, Sentenza n. 20677 del 11 aprile 2017, omissis, rv. 270071; Sez. 4, n. Sentenza n. 46979 del 10 novembre 2015, omissis, rv. 265053; Sez. 2, Sentenza n. 26725 del 1° marzo 2013, omissis, rv. 256723; per una applicazione del principio anche al di fuori del vizio di motivazione v. Sez. 4, Sentenza n. 18335 del 28/06/2017, dep. 2018, PG in proc. omissis, Rv. 273261).

Per questo indirizzo giurisprudenziale, che ormai si è consolidato, sono, quindi, inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza, quei motivi di ricorso che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, richiamano atti specificamente indicati, ma non ne contengono la loro integrale trascrizione o allegazione (v. sentenze S. e B. sopra citate).

Ne consegue che nel caso in esame, in cui il ricorrente fonda l’esistenza del vizio di motivazione sulla tabella merceologica della propria attività commerciale, limitandosi a riferire di averla prodotta in dibattimento al giudice di primo grado, ma non allegando tale atto al ricorso né riportandolo in modo integrale all’interno dello stesso, il ricorso deve essere ritenuto inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso.

L’argomento, peraltro, è inammissibile anche perché del tutto inconferente con la vicenda in esame, atteso che è lo stesso ricorrente che riferisce che il machete non era destinato alla vendita.

E ciò senza dire che, che un’arma non può essere considerata come un articolo di ferramenta.

3. Il quarto motivo, dedicato alla causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, è infondato.

Nell’atto di appello non era stato proposto un motivo sulla applicabilità nel caso in esame dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen., ma il ricorso censura la motivazione della sentenza impugnata deducendo che il giudice d’appello avrebbe dovuto porsi d’ufficio il problema dell’applicabilità del beneficio.

L’argomento è infondato. La giurisprudenza di legittimità ammette, a certe condizioni, la proponibilità del ricorso per cassazione in cui si lamenta il mancato rilievo d’ufficio della particolare

tenuità, affermando, in particolare, che “in tema di ricorso per cassazione, è deducibile il difetto di motivazione della sentenza d’appello che non abbia rilevato ex officio, alla stregua di quanto previsto

dall’art. 129 cod. proc. pen, la sussistenza della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, a condizione che siano indicati i presupposti legittimanti la pretesa applicazione di tale causa proscioglitiva, da cui possa evincersi la decisiva rilevanza della dedotta lacuna motivazionale. (Sez.

6, n. 5922 del 19/01/2023, omissis, Rv. 284160 – 01), pur se diverso orientamento ritiene, invece, che “in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità” (Sez. 5, n. 4835 del 27/10/2021, dep. 2022, omissis, Rv. 282773 – 01).

Nel caso in esame, però, l’argomento speso nel ricorso è comunque infondato, perché esso è sorretto dalla deduzione che i presupposti legittimanti il beneficio sarebbero emersi dalla stessa decisione impugnata che, riformando la pronuncia di primo grado, ha concesso all’imputato la sospensione condizionale della pena; questa decisione, infatti, presuppone sul piano logico che il giudice d’appello abbia formulato in favore dell’imputato una prognosi di non recidivanza.

L’argomento è infondato, perché il giudizio sull’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. è profondamente diverso da quello sulla concessione o meno della sospensione condizionale della pena, perché il secondo si risolve nella presunzione che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 164 cod. pen.), e quindi è una valutazione prognostica formulata ex ante, mentre il

primo giudica ex post l’offesa perpetrata in concreto sulla base di elementi che attengono al fatto storico commesso ed ai precedenti di chi lo ha perpetrato.

La radicale diversità dei due giudizi (in senso conforme Sez. 2, n. 31861 del 28/09/2020, omissis, Rv. 279818 – 01) rende la decisione in punto di pena sospesa non idonea ad essere utilizzata come base logica per sostenere l’applicabilità d’ufficio dell’istituto.

4. Il quinto motivo, che deduce sulla maturazione del termine di prescrizione del reato, è manifestamente infondato.

Il fatto è avvenuto il 16 luglio 2021; la condanna in primo grado è intervenuta il 19 settembre 2022; pacificamente non sono, pertanto, decorsi né il termine di cui all’art. 157, comma 1, cod. pen., né i termini massimi di cui all’art. 161 cod. pen.

Il ricorso deduce che la data di commissione del reato dovrebbe essere anticipata al 2010, perché quello è il periodo in cui fu acquistato, e collocato nel locale commerciale, il machete.

L’argomento è manifestamente infondato, sia perché l’anticipazione della data di commissione del reato di ben undici anni rispetto alla data di accertamento del reato si basa su una ipotesi meramente congetturale (ovvero, che il machete non sia mai stato spostato dal locale) che in giudizio riposa soltanto sulla dichiarazione dell’imputato, sia perché in ogni caso i reati di porto illegale di una arma, in questo caso fuori della abitazione, permangono fino a quando dura il porto (v., da ultimo, Sez. 1, n. 4896 del 16/11/2017, dep. 2019, omissis, Rv. 276165 – 01).

5. Il ricorso è, nel complesso, infondato. Ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., alla decisione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così è deciso, 12/02/2025.

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