Il delitto di distruzione o occultamento di scritture contabili richiede l’impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari?

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Cass. pen., sez. III, 27/05/2025 (ud. 27/05/2025, dep. 3/07/2025), n. 24427 (Pres. Di Nicola, Rel. Di Stasi)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava se il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori richieda, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

La Corte di Appello di Napoli, in parziale riforma di una sentenza emessa dal Tribunale di Avellino, confermata l’affermazione di responsabilità dell’imputato per i reati di cui agli artt. 2, 8 e 10 d.lgs 74/2000, mentre dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui all’art 8 d.lgs 74/2000 perché estinto per intervenuta prescrizione, rideterminando al contempo la pena per le residue imputazioni in anni due e mesi quattro di reclusione.

Ciò posto, avverso codesta decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’accusato il quale, tra i motivi ivi addotti, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 10 del d.lgs 74/2000 il quale, come è noto, prevede quanto segue: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre a sette anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

Il Supremo Consesso riteneva il motivo suesposto infondato.

In particolare, tra le argomentazioni che inducevano gli Ermellini ad addivenire a siffatto esito decisorio, era richiamato quell’orientamento nomofilattico secondo cui il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori, non richiede, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando a tale ricostruzione si possa pervenire “aliunde” (Sez. 3, n. 39711 del 04/06/2009; Sez. 3 n.7051 del 15/01/2019)..

I risvolti applicativi

Il delitto di distruzione o occultamento di scritture contabili non richiede un’impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o i redditi, essendo sufficiente anche un’impossibilità relativa, soprattutto se la ricostruzione in questione possa avvenire tramite fonti alternative.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 3 Num. 24427 Anno 2025

Presidente: DI NICOLA VITO

Relatore: DI STASI ANTONELLA

Data Udienza: 27/05/2025

Data Deposito: 03/07/2025

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

D’A. C., nato a … il …

avverso la sentenza del 02/07/2024 della Corte di appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Antonella Di Stasi;

letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Valentina Manuali, che ha concluso chiedendola declaratoria di inammissibilità del ricorso;

lette per l’imputato le conclusioni dell’avv. M. A. G., che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 02/07/2024, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa in data 14/12/2022 dal Tribunale di Avellino, confermata l’affermazione di responsabilità dei D’A. C. per i reati di cui agli artt. 2, 8 e 10 d.lgs 74/2000, dichiarava non doversi procedere in relazione al reato di cui all’art 8 d.lgs 74/2000 perché estinto per intervenuta prescrizione e rideterminava la pena per le residue imputazioni in anni due e mesi quattro di reclusione.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione D’A. C., a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 2 d.lgs 74/2000 e vizio di motivazione.

Argomenta che l’affermazione di responsabilità era stata basata solo su presunzioni tributarie che avrebbero dovuto essere sottoposte ad un vaglio preciso; il compendio probatorio, infatti, era costituito solo dal verbale di accertamento in sede tributaria e dalla deposizione di un funzionario; in maniera inverosimile era stato ritenuto che la ditta dell’imputato fosse priva di sede operativa, in presenza di un contratto di locazione commerciale depositato agli atti; l’assenza di beni strumentali sia in relazione all’attività pubblicitaria che a quella conciatoria, pur in presenza di prova documentale costituita dal registro dei beni ammortizzabili e dalla valutazione dell’Amministrazione finanziaria; era inverosimile anche la ritenuta l’assenza di forza lavoro, perché inattendibile il teste D. M., pur risultando il dato dalle buste paga agli atti; contraddittoria ed illogica era, poi, la ritenuta assenza di autorizzazione per l’esercizio dell’attività conciaria, in quanto in contrasto con il contenuto dell’avviso di accertamento; infine, non era stata considerata l’ordinanza del Gip del Tribunale di Avellino che si era già espresso in ordine alla presunta inesistenza delle fatture emesse nell’anno 2013 dalla ditta L..

Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 2 d.lgs 74/2000 e vizio di motivazione.

Argomenta che la Corte territoriale, nonostante la questione fosse stata posta con l’atto di appello, non aveva motivato in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, costituito dal dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 10 d.lgs 74/2000.

Argomenta che, con riferimento all’elemento oggettivo del reato in questione, la Corte di appello aveva espresso una motivazione illogica e contraddittoria, ritenendo la falsità della denuncia di furto delle scritture contabili in considerazione della inverosimiglianza delle circostanze in cui si sarebbe verificato il furto della documentazione. Quanto all’elemento soggettivo, la Corte di appello aveva erroneamente ritenuto che la falsa denuncia avrebbe reso impossibile la ricostruzione della situazione patrimoniale della ditta dell’imputato, in quanto il reddito o il volume di affari era stato comunque ricostruito attraverso la documentazione prodotta in giudizio dalla parte.

Con il quarto motivo deduce violazione dell’art. 133 cod. pen, e vizio di motivazione per eccessività della pena.

Argomenta che la Corte di appello aveva confermato la dosimetria della pena operata dal primo giudice, senza giustificare l’entità della pena base e l’aumento operato per la continuazione; la riduzione disposta per l’intervenuta estinzione del reato di cui all’art. 8 d.lgs 74/2000 era esigua e non era stata data contezza del computo operato; infine, la sospensione condizionale della pena era stata

denegata nonostante i reati precedenti erano risalenti nel tempo.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

3. Il Pg ha depositato requisitoria scritta; la difesa dell’imputato ha depositato memoria di replica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiede sostanzialmente una rivisitazione, non consentita in questa sede, delle risultanze

processuali.

Nel motivo in esame, infatti, si espongono censure le quali si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, omissis, Rv. 235507; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, omissis, Rv. 235510; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, omissis, Rv. 235508).

Va ribadito, a tale proposito, che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8 non è consentito dedurre il “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze

processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006, Rv. 234559; Sez. 5, n. 39048/2007, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 2012, Rv. 253099) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Rv. 234148).

Va ricordato che il controllo di legittimità della motivazione che sorregge la decisione di merito può essere eseguito solo, in riferimento ai tassativi vizi che esclusivamente rilevano in questo giudizio: la assenza di motivazione (anche nella forma della mera apparenza grafica), la ‘manifesta’ illogicità e la contraddittorietà, così come previsto dalla lettera e) del primo comma dell’art. 606 cod. proc. pen.; la mera ‘illogicità’ della motivazione è irrilevante, perché strutturalmente diversa dalla ‘manifesta illogicità’, vizio distinto dal precedente e unico rilevante. Infatti, l’illogicità della motivazione censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., è solo quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi” (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, dep. 10/12/2003, omissis, Rv. 226074, Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Rv.284556 – 01).

La Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989; Sez. 5, n. 6754 del 07/10/2014, dep.16/02/2015, Rv. 262722).

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte di appello ha ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato contestato, dando rilievo alle modalità della condotta, che denotavano come l’imputato avesse artatamente predisposto una situazione diversa da quella reale, traendo da tale elemento fattuale la dimostrazione del dolo specifico di evasione del reato di cui all’art. 2 d.lgs 74/2000.

Va rimarcato che l’accertamento del dolo costituisce un accertamento di fatto volto a conoscere e ricostruire il fatto storico e deve fondarsi sulla considerazione di tutte le circostanze esteriori dello stesso. Nella specie, la motivazione offerta dalla Corte territoriale a fondamento dell’accertamento dell’elemento psicologico ha tenuto conto di tutti gli elementi fattuali rilevanti, e si connota come adeguata e priva di vizi logici e, pertanto, si sottrae al sindacato di legittimità.

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va ricordato che l’occultamento, integrante una delle due condotte incriminate dall’art. 10 d.lgs 74/2000 consiste nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori; trattasi di reato permanente che si consuma nel momento dell’ispezione e si protrae sino al momento dell’accertamento fiscale (cfr. Sez. 3, n. 14461 del 25/05/2016 (dep. 24/03/2017, Rv. 269898 – 01; Sez. 3, n. 13716 del 07/03/2006 Rv. 234239 – 01); non è, inoltre, indispensabile, ai fini dell’integrazione del reato, che l’occultamento o la distruzione dei documenti sia integrale, essendo sufficiente che la condotta sia idonea ad impedire la verifica fiscale e l’accertamento dei tributi ed abbia come effetto l’impossibilità di ricostruire il valore economico degli affari del contribuente o di rendere obbiettivamente più difficoltosa la ricostruzione (Sez. 3, n.19106 del 02/03/2016, Rv.267102; Sez.3, n. 19106 del 02/03/2016, Rv. 267102). Costituisce, infatti, consolidato principio di diritto, quello secondo cui il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori, non richiede, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d’affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando a tale ricostruzione si possa pervenire “aliunde” (Sez. 3, n. 39711 del 04/06/2009, Rv. 244619 – 01; Sez. 3 n. 7051 del 15/01/2019, Rv. 275005 – 01).

La Corte territoriale, facendo buon governo dei suesposti principi di diritti, ha evidenziato come le complessive risultanze processuali comprovavano che l’imputato avesse volontariamente occultato la documentazione contabile richiesta dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate (fatture degli acquisti ricevute e fatture delle vendite emesse dalla N. E. nell’anno di imposta 2013), rendendo più difficoltosa la ricostruzione della situazione patrimoniale della sua ditta.

4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte di appello ha condiviso la dosimetria della pena operata dal primo giudice, sorretta da adeguate argomentazioni e, in particolare, la determinazione della pena base per il reato più grave di cui al capo 3) e l’aumento di pena per la continuazione tra i reati (mesi quattro per ciascuno dei due reati in continuazione), richiamando anche la pervicacia dei comportamenti; a seguito, poi, della declaratoria di prescrizione del reato di cui al capo 2), la Corte di appello ha rideterminato correttamente la pena, sottraendo la porzione di pena (mesi quattro di reclusione) applicata per la continuazione in relazione a tale reato.

Il trattamento sanzionatorio è, dunque, sorretto da argomentazioni adeguate e prive di vizi logici, che si sottraggono al sindacato di legittimità.

Va ricordato che, ai fini del trattamento sanzionatorio, è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello (o quelli) che ritiene prevalente e atto a consigliare la determinazione della pena; e il relativo apprezzamento discrezionale, laddove supportato da una motivazione idonea a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo, non è censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Ciò vale, a fortiori, anche per il giudice d’appello, il quale, pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante, non è tenuto a un’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti, ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, deve indicare quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (Sez.2, n. 19907 del 19/02/2009, Rv. 244880; Sez.4, 4 luglio 2006, n. 32290). Va rammentato anche che costituisce principio consolidato che la motivazione in ordine alla determinazione della pena base (ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti) è necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore alla misura media edittale, ipotesi che non ricorre nella specie.

Fuori di questo caso anche l’uso di espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congrua riduzione”, “congruo aumento” o il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 c.p. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al “quantum” della pena (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009 Rv. 245596; Sez. 4,n.21294 del 20/03/2013, Rv. 256197).

Infine, del tutto generica e priva di concretezza è la doglianza relativa alla mancata applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

5. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

(parte mancante)

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