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Quando ricorre il divieto di estradizione in relazione al rischio di atti persecutori, discriminatori o trattamenti inumani?

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Cass. pen., sez. VI, 26/06/2024 (ud. 26/06/2024, dep. 25/07/2024), n. 30605 (Pres. Di Stefano, Rel. Criscuolo)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava quando opera il divieto di pronuncia favorevole all’estradizione per i casi in cui vi sia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

La Corte di Appello di Bari riteneva sussistenti le condizioni per un’estradizione richiesta dalla Repubblica di Albania per l’esecuzione di una sentenza di condanna per concorso nei reati di omicidio aggravato, detenzione illegale di armi e occultamento di cadavere, disponendo il mantenimento della custodia cautelare in carcere e, al contempo, la sospensione dell’esecuzione dell’estradizione fino alla definizione del procedimento pendente presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Bari per i reati di porto di coltello e false dichiarazioni alla Polizia.

Ciò posto, avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’estradando, il quale deduceva violazione degli artt. 293, 292, comma 2-ter, cod. proc. pen. e vizio di motivazione.

In particolare, tra le considerazioni addotte nel ricorso, si eccepiva la violazione delle regole del giusto processo, la violazione dell’art. 705 cod. proc. pen., essendovi motivo di ritenere che l’estradando sarebbe stato sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per condizioni personali e sociali o a trattamenti disumani o degradanti o, comunque, ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Corte di legittimità riteneva l’eccezione suesposta infondata sulla scorta di quell’orientamento nomofilattico secondo il quale il divieto di pronuncia favorevole all’estradizione per i casi in cui vi sia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui detta situazione sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee ad orientamenti istituzionali e rispetto ai quali sia possibile comunque una tutela legale (ex pluribus v. Sez. 6, sent. n. 4977 del 15/12/2015; Sez. 6, sent. n. 45476 del 15/09/2015; Sez. 6, sent. n. 9082 del 05/02/2010).

I risvolti applicativi

Il divieto di estradizione si applica solo se il rischio di atti persecutori, discriminatori o trattamenti inumani derivi da una scelta politica o da una situazione normativa del Paese richiedente, e non da circostanze occasionali che possono comunque essere legalmente tutelate.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 6 Num. 30605 Anno 2024

Presidente: DI STEFANO PIERLUIGI

Relatore: CRISCUOLO ANNA

Data Udienza: 26/06/2024

Data Deposito: 25/07/2024

SENTENZA

sul ricorso proposto da

T. A. (alias …), nato in … il …

avverso la sentenza del 16/04/2024 della Corte di appello di Bari

letti gli atti, il ricorso e la sentenza impugnata;

udita la relazione del consigliere Anna Criscuolo;

lette le conclusioni del pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Luigi Giordano, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

lette le conclusioni del difensore avv. D. C., che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. T. A., destinatario di mandato di cattura internazionale emesso il 2 settembre 2021 dalla Corte di appello di Kruje, ha proposto, tramite il suo difensore di fiducia, ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Bari ha ritenuto sussistenti le condizioni per l’estradizione richiesta dalla Repubblica di Albania per l’esecuzione della sentenza di condanna alla pena di anni 30 di reclusione emessa il 17 giugno 2021 dal Tribunale distrettuale di Kruje per concorso nei reati di omicidio aggravato, detenzione illegale di armi e occultamento di cadavere, commessi in Kruje il 5 luglio 2018, disponendo il mantenimento della custodia cautelare in carcere e, al contempo, la sospensione dell’esecuzione dell’estradizione fino alla definizione del procedimento pendente presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Bari per i reati di porto di coltello e false dichiarazioni alla Polizia.

Con un unico, articolato, motivo il difensore chiede l’annullamento della sentenza per violazione degli artt. 293, 292, comma 2-ter, cod. proc. pen. e vizio di motivazione.

La Corte di appello non avrebbe considerato le vistose lacune della sentenza di condanna albanese in punto di colpevolezza del ricorrente, derivando l’accusa dalle dichiarazioni auto ed etero accusatorie del correo H. R., cugino della ex moglie del T. , il quale si era costituito il 14 luglio 2018 ed aveva ammesso che insieme al T. , avevano ucciso e sepolto K. H. vicino al cimitero del quartiere. Il ricorrente, che è stato processato in assenza, sostiene di essere estraneo e di ignorare i fatti; di aver appreso di essere ricercato per l’omicidio solo una volta giunto in Italia, ma di non conoscere la vittima, vista litigare con il R. per motivi economici in un bar di Kruje; ribadisce la propria innocenza e di temere la vendetta dei familiari della vittima in base alla legge di Kanun, vigente in Albania, ragione per la quale si era procurato documenti falsi per sottrarsi ad intercettazioni e ricerche.

Si evidenzia che lo stesso Tribunale ammette l’esistenza di dubbi sul concorso nell’omicidio, ma ha ugualmente condannato l’imputato in base alle dichiarazioni del R. ed alle chiamate da questi effettuate al T.  il giorno dell’omicidio, risultanti dai tabulati telefonici; si segnala la mancata valutazione delle dichiarazioni testimoniali, in particolare, quella del fratello della vittima, il quale ha riferito dell’appuntamento della vittima con il R. la sera dell’omicidio, ma non ha menzionato il T.. Si contesta, quindi, la sussistenza di chiari elementi di prova per l’affermazione di responsabilità concorsuale del TT.  sia nell’omicidio che nella detenzione delle armi, rinvenute, su indicazione del R., nel luogo, rimasto a sua disposizione, in cui era stata sepolta la vittima.

Si eccepisce la violazione delle regole del giusto processo, la violazione dell’art. 705 cod. proc. pen., essendovi motivo di ritenere che l’estradando sarà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per condizioni personali e sociali o a trattamenti disumani o degradanti o, comunque, ad atti che configurano violazione dei diritti fondamentali della persona, vigendo in Albania la cd legge di Kanun, sovrapponibile alla faida. Si sottolinea il mancato accertamento sul rischio di sottoposizione a trattamenti disumani e degradanti e sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente; si auspica, in caso di revoca della domanda estradizionale, la sottoposizione ad un giusto processo secondo la legge italiana su richiesta del Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 10 cod. pen., tenuto conto dei ragionevoli dubbi sulla colpevolezza del T.  e dell’assenza di indizi gravi e concordanti sulla commissione dell’omicidio, atteso che secondo il ricorrente l’accusa del R. trova fondamento nella relazione tra questi e la sua ex moglie, scoperta dal T.  e sfociata in un acceso diverbio con il R..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati.

Il ricorso ripropone in questa sede il tema della mancanza di gravi indizi di colpevolezza e delle vistose lacune sul piano della responsabilità concorsuale del ricorrente nell’omicidio e nei reati connessi per inidoneità degli elementi posti a base della sentenza di condanna, ignorando la corretta risposta resa sul punto dalla Corte di appello, proponendo censure processuali e di merito della sentenza di condanna albanese e persino individuando il movente delle accuse nella relazione che il suo accusatore avrebbe avuto con la sua ex moglie.

Censure, queste, non consentite, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, secondo i principi affermati da questa Corte in caso di applicazione della Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957.

E’ stato, infatti, precisato che in tema di estradizione esecutiva per l’estero, nel regime di consegna disciplinato dalla Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, è inibita ogni rivalutazione del materiale probatorio sul quale si fonda la decisione esecutiva emessa dall’autorità giudiziaria straniera, dovendo il giudice nazionale compiere un esame solo formale del titolo esecutivo straniero, in quanto l’adesione alla convenzione presuppone il reciproco affidamento degli Stati contraenti e l’impegno a riconoscere la validità ed efficacia delle rispettive sentenze (Sez. 6, n. 19353 del 19/04/2024, omissis, n.m.; Sez. 6, n. 25526 del 03/06/2021, omissis, Rv. 281534; Sez. 6, n. 40036 del 02/11/2010, omissis, Rv. 248524).

Non è, quindi, consentita alcuna revisione del materiale probatorio posto a fondamento del giudizio di condanna, come, invece, richiede il ricorrente, stante il reciproco affidamento degli Stati contraenti nella validità delle rispettive sentenze.

Detto argomento consente di respingere anche l’ulteriore profilo di censura relativo al mancato rispetto delle regole del giusto processo, specie in considerazione della circostanza che il sistema dello Stato richiedente prevede la possibilità per il condannato in contumacia di impugnare la sentenza di condanna definitiva qualora non abbia avuto conoscenza del procedimento.

Proprio in tema di estradizione esecutiva verso l’Albania è stato confermato detto principio (Sez. 6, n. 19226 del 30/03/2017, omissis, Rv. 269833), in quanto l’ordinamento albanese prevede l’istituto della restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale (art. 51, I. n. 10.193 del 3 dicembre 2009, emessa in attuazione dell’art. 3 del Secondo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea di estradizione firmata a Strasburgo il 17 marzo 1978 e ratificata dall’Italia con la I. 18 ottobre 1984).

2. Del tutto infondata è la eccepita violazione dell’art. 705 cod. proc. pen. per l’esposizione al rischio di vendetta dei familiari della vittima cui sarebbe sottoposto l’estradando a causa della cd legge di Kanun vigente in Albania.

Anche a tale deduzione la Corte di appello ha fornito corretta risposta, escludendo che la regola indicata dal ricorrente possa rientrare nel catalogo delle cause ostative previste dall’art. 705 cod. proc. pen., non potendo condizionarsi la consegna alla garanzia dell’assenza di pericoli per l’estradando in forza di una regola non scritta e di atti di vendetta privata, del tutto illegittimi e non consentiti dall’ordinamento.

Sul punto la Corte di appello si è conformata al principio già affermato da questa Corte, secondo il quale non costituisce condizione ostativa all’accoglimento della richiesta il rischio, per l’estradando, di vendette da parte dei familiari della vittima, correlato alla cd. “regola del kanun” diffusa in Albania,

in quanto tale situazione è riferibile a pratiche private e non ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente (Sez. 6, n. 30884 del 18/09/2020, omissis, Rv. 279851; Sez. 6, n. 19392 del 25/06/2020, omissis n. mass.; (Sez. 6, n. 14418 del 10/01/2020, omissis non mass.).

Si è, infatti, chiarito che il divieto di pronuncia favorevole all’estradizione per i casi in cui vi sia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui detta situazione sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee ad orientamenti istituzionali e rispetto ai quali sia possibile comunque una tutela legale (ex pluribus v. Sez. 6, sent. n. 4977 del 15/12/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 265899; Sez. 6, sent. n. 45476 del 15/09/2015, omissis, Rv. 265455; Sez. 6, sent. n. 9082 del 05/02/2010, omissis, Rv. 246285).

3. Inammissibile perché genericamente enunciato, ma non argomentato, è il mancato accertamento delle condizioni di detenzione nello Stato richiedente, trattandosi, peraltro, di questione non dedotta in appello né in alcun modo supportata da documentazione o allegazioni specifiche.

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. cod. proc. pen.

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