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È possibile sindacare la valutazione del giudice di merito in sede di legittimità?

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Cass. pen., sez. I, 30/01/2024 (ud. 30/01/2024, dep. 23/05/2024), n. 20528 (Pres. Boni, Rel. Siani)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava se è possibile sindacare la valutazione del giudice di merito in sede di legittimità.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

Il Tribunale di Napoli aveva dichiarato gli imputati responsabili dei reati di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale e, riconosciute le attenuanti generiche, li aveva condannati alla pena di anni due, mesi due di reclusione, applicando le previste pene accessorie per la durata di anni dieci.

Ciò posto, avverso questa decisione ambedue gli accusati ricorrevano per Cassazione e i giudici di piazza Cavour, dal canto loro, avevano annullato la sentenza predetta con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte territoriale partenopea la quale, a sua volta, aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo ad uno degli imputati le circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle contestate aggravanti, rideterminando la pena inflittale in quella di anni due di reclusione, riducendo in corrispondenza anche la durata delle pene accessorie e concedendo all’imputata la sospensione condizionale della pena, con conferma nel resto.

Orbene, avverso codesta sentenza la difesa ricorreva per Cassazione, deducendo vizio di contraddittoria e omessa motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati, e violazione di legge, per omessa osservanza del principio di diritto fissato con la pronuncia rescindente.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Corte di legittimità riteneva il ricorso suesposto infondato.

In particolare, gli Ermellini, tra le argomentazioni che le avevano indotto ad addivenire a siffatto esito decisorio, richiamavano quell’orientamento nomofilattico secondo il quale non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017) dal momento che eccede, dai limiti di cognizione della Corte di Cassazione, ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e),cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di impugnazione, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023).

I risvolti applicativi

La valutazione del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità, tranne che per la congruità e la logicità della motivazione, spettando unicamente a questo giudice: valutare la rilevanza e l’attendibilità delle prove, risolvere i contrasti testimoniali e decidere tra versioni e interpretazioni divergenti dei fatti.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 1 Num. 20528 Anno 2024

Presidente: BONI MONICA

Relatore: SIANI VINCENZO

Data Udienza: 30/01/2024

Data Deposito: 23/05/2024

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M. A. nato a … il …

avverso la sentenza del 25/05/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO SIANI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale MARIAEMANUELA GUERRA, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

udito il difensore di A. M., avv. M. D. F., del foro di N.. che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 26 ottobre 2015 il Tribunale di Napoli aveva dichiarato A. M., nella qualità di amministratore della M. di M. A. Sas, nonché B. M., quale amministratore di fatto della stessa società, responsabili dei reati di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale, in relazione al fallimento della suddetta società, dichiarato il 27 febbraio 2013, e, riconosciute le attenuanti generiche, li aveva condannati alla pena di anni due, mesi due di reclusione, applicando le previste pene accessorie per la durata di anni dieci.

1.1. Impugnata la sentenza da entrambi gli imputati, la Corte di appello di Napoli, con decisione del 2 novembre 2021, in parziale riforma, aveva ridotto la durata delle pene accessorie fino alla misura pari a quella della pena principale.

1.2. A. M. aveva proposto ricorso avverso la pronuncia di secondo grado e la Corte di cassazione (con sentenza emessa da Sez. 5, n. 3434 del 06/12/2022, dep. 2023) aveva annullato la sentenza predetta con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

La Corte di cassazione, mentre aveva ritenuto infondato il primo motivo di ricorso, inerente all’eccezione di invalidità della richiesta di rinvio a giudizio, e aveva considerato inammissibile il secondo motivo di ricorso, inerente alla deduzione di vizi della motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputata, con riguardo all’accertamento dell’elemento oggettivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale, aveva viceversa reputato fondato il terzo motivo, afferente alla prospettazione di ulteriore vizio della motivazione per ciò che concerneva la sussistenza del dolo generico della bancarotta fraudolenta patrimoniale.

1.3. La Corte di appello di Napoli, con la sentenza in epigrafe, emessa il 25 maggio 2023, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo ad A. M. le circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle contestate aggravanti, rideterminando la pena inflittale in quella di anni due di reclusione, riducendo in corrispondenza anche la durata delle pene accessorie e concedendo all’imputata la sospensione condizionale della pena, con conferma nel resto.

2. Avverso quest’ultima decisione ha proposto ricorso il difensore di A. M. chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a un unico, articolato motivo con cui vengono prospettati il vizio di contraddittoria e omessa motivazione, in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati, e la violazione di legge per omessa osservanza del principio di diritto fissato con la pronuncia rescindente.

Premesso che la Corte di legittimità aveva stigmatizzato la mancata indicazione del contenuto delle prove poste dai giudici di merito a sostegno dell’affermata reale esistenza dell’attività gestoria della società da parte dell’imputata, secondo la difesa, la motivazione fornita sull’argomento dalla sentenza resa all’esito del rescissorio, anche con riferimento alla firma di alcuni assegni, si rivela, nella sostanza, apparente, essendo la stessa basata su dati probatori parziali e non veritieri, mentre ha trascurato del tutto le dichiarazioni del testimone B. F., oggetto di puntuale censura con il primo atto di appello e valorizzate dalla Corte di legittimità, come il contenuto di tale atto istruttorio, richiamato nell’impugnazione, dimostrava.

A fronte di questo pregnante elemento, la valorizzazione della predisposizione da parte dell’imputata, nella sede dell’azienda, di alcuni cibi pronti costituisce, per la ricorrente, la base di una motivazione illogica, peraltro riferita a mansione propria di una dipendente, non di una amministratrice, avendo l’istruttoria escluso che ella avesse compiuto attività di vera e propria gestione, quali l’effettuazione di pagamenti e la cura dei contatti con i fornitori.

Anche il riferimento alle dichiarazioni di B. M. – segnala la difesa – è stato effettuato dai giudici del rinvio in modo parziale, senza tener conto che questi aveva chiarito che la qualifica di amministratrice della sorella era dovuta al fatto che, essendo egli protestato, non poteva comparire in prima persona quale amministratore: tali dichiarazioni, coniugate con quelle rese da F., sono state, pertanto, illogicamente obliterate dalla Corte territoriale, così essendo restata decisivamente viziata la decisione.

3. Il Procuratore generale ha prospettato la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in quanto, nella sentenza emessa all’esito del giudizio di rinvio, la Corte di appello ha colmato la lacuna motivazionale rilevata nella sentenza rescindente, mentre la ricorrente ha dedotto censure di merito, inidonee a contrastare il tessuto argomentativo che sorregge la decisione impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso, nel suo complesso, si rivela privo di fondamento.

2. Anche per individuare il tema oggetto della residua regiudicanda è opportuno ricordare che la Corte di cassazione, nella sentenza rescindente, dopo aver premesso che, in tema di reati fallimentari, è certamente sufficiente a integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, in capo all’amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto, aveva puntualizzato che siffatta consapevolezza deve emergere dai dati probatori ed essere oggetto di puntuale motivazione.

In questa cornice, i giudici di legittimità avevano rilevato che la Corte di merito, pur essendo stata investita di uno specifico motivo di impugnazione quanto alla reale esistenza di attività gestoria dell’amministratrice di diritto, aveva superato la questione e quella, eventualmente conseguente, della

consapevolezza delle attività distrattive messe in essere dal coimputato, ossia dall’amministratore di fatto, richiamando le dichiarazioni rese dalla stessa M. al curatore e a quanto riferito dal testimone F., ma in entrambi i casi non aveva indicato il contenuto delle prove, così esibendo una motivazione assertiva e non controllabile rispetto alle critiche contenute nel ricorso.

Tale specifico profilo di carenza motivazionale aveva identificato la ragione dell’annullamento della sentenza di appello con il conseguente rinvio.

2.1. La Corte di appello, all’esito del giudizio di rinvio, ha motivato la decisione sopra richiamata specificando che è stata acquisita la dimostrazione della piena consapevolezza in capo all’imputata delle attività illecite oggetto delle imputazioni e hanno indicato quali prove di tale consapevolezza le dichiarazioni rese dalla stessa A. M. e anche da B. M. al curatore fallimentare, specialmente in merito alla firma apposta da parte della stessa M. in calce agli assegni dati in pagamento ai fornitori, nonché la testimonianza resa dal dipendente della società fallita B. F., il quale aveva descritto l’attività della società fallita, di vendita di articoli di salumeria e macelleria, nonché di produzione di piatti pronti, e aveva identificato la costante presenza dell’imputata nell’esercizio precisando i compiti che, con specifico riferimento alla produzione e alla vendita dei piatti pronti, ella svolgeva.

Valutato anche l’episodio del licenziamento di F., con la precisazione che la costante presenza dell’imputata nell’esercizio commerciale non implicava che essa dovesse essere presente in tutti gli orari di apertura del supermercato, come era capitato nel pomeriggio in cui il suddetto dipendente aveva chiesto il permesso per ragioni di urgenza, i giudici del rescissorio hanno considerato che era emerso un quadro probatorio convergente nel senso della corretta qualificazione giuridica operata in primo grado e in merito alla sussistenza della necessaria consapevolezza in capo all’amministratrice di diritto delle attività delittuose, che si erano risolte nella distrazione da parte di B. M. dei beni strumentali per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale della società.

2.2. La riforma della prima decisione ha, invece, riguardato il trattamento sanzionatorio, in quanto la valorizzazione dell’incensuratezza “sostanziale” di A. M. ha condotto la Corte del rinvio ad assegnare la prevalenza sulle aggravanti alle già riconosciute circostanze attenuanti generiche, con riduzione della pena principale fino all’entità di anni due di reclusione, che, da un lato, ha indotto alla pari riduzione delle pene accessorie e, dall’altro, ha consentito ai giudici del rescissorio di concedere all’imputata la sospensione condizionale della pena stessa.

3. A fronte di questa dialettica procedimentale, rileva sottolineare che l’annullamento parziale con rinvio disposto dalla Corte di cassazione ha riguardato il solo elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale, con particolare riferimento all’emersa necessità di rinnovare la motivazione – risultata carente – relativa, appunto, al dolo della bancarotta per distrazione in capo all’imputata, amministratrice di diritto, ferma l’assodata sussistenza della distrazione e la ritenuta responsabilità per essa dell’amministratore di fatto, B. M., con la segnalazione della rilevanza della verifica del ruolo

gestorio, svolto dall’imputata nell’attività dell’impresa societaria poi fallita.

3.1. Si è visto che la sentenza rescindente ha richiamato, sull’argomento in esame, il principio di diritto secondo cui, in tema di reati fallimentari, è sufficiente a integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, dell’amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, omissis, Rv. 279831 – 01); ciò, nel solco del consolidato orientamento in virtù del quale, in tema di bancarotta fraudolenta, mentre, con riguardo a quella documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita, in considerazione del diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo all’ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, in quanto la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non implica in modo necessario la sua consapevolezza dei disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, omissis, Rv. 274166 – 01).

Procedendo in questo alveo, la Corte di appello, nella sentenza impugnata, ha individuato e descritto le attività di natura gestoria direttamente ascrivibili all’imputata appurate mediante l’analisi, stavolta specifica e adeguata, delle prove assunte.

In tal modo, valutati e connessi fra loro gli apporti probatori concretati dalle dichiarazioni della stessa A. M. e di B. M. al curatore fallimentare, nonché dalla testimonianza di B. F., già dipendente della società di poi fallita, i giudici del rinvio hanno dato conto adeguato dell’intervenuto accertamento dell’attività dell’imputata inserita nella sfera dell’amministrazione della società, peraltro normativamente consentanea alla posizione di socia accomandataria (come si desume dalla ragione sociale della società fallita, in relazione al disposto dell’art. 2314 cod. civ.) da lei assunta.

D’altro canto, la sua immixtio nella gestione dell’impresa sociale, riferita alla diretta sottoscrizione degli assegni rilasciati ai fornitori e alla costante presenza dell’imputata nell’azienda, connotata dall’impiego conseguente da parte sua dei beni strumentali, attese le mansioni anche operative che ella si era attribuite, ha supportato la conclusione raggiunta dalla Corte di appello, atteso il costante contatto che le sue mansioni implicavano con il patrimonio aziendale, con gli effetti che ne sono derivati in punto di prova certa della sua piena consapevolezza della susseguente distrazione dei relativi componenti.

3.2. Le critiche insite nella doglianza, depurate dagli inammissibili conati rivalutativi, non riescono a contrastare in modo efficace sotto il profilo logico giuridico il discorso giustificativo che ha sorretto la decisione al vaglio.

La testimonianza di B. F., su cui fa leva la ricorrente, è stata valutata nella sua complessiva articolazione dai giudici del rescissorio, i quali, senza negare che il teste aveva ascritto a B. M. il ruolo primario della conduzione imprenditoriale, hanno però evidenziato, con motivazione congrua e

lineare, anche i non secondari riferimenti del dichiarante al contributo alla gestione stessa data dall’amministratrice di diritto A. M.: soltanto un inquadramento reinterpretato in senso riduttivo di tale contributo, come sopra richiamato, ha consentito, quindi, alla difesa di proporre l’equiparazione del ruolo dell’imputata a quello di una dipendente della società.

Si tratta, per quest’ultimo aspetto, di un’operazione valutativa, volta a correggere l’inquadramento esposto dai giudici del rinvio, non ammessa in sede di legittimità: in tal senso, va riaffermato il principio di diritto in forza del quale non è sindacabile in questa sede, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, omissis, Rv. 271623 – 01). Eccede, infatti, dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di impugnazione, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, omissis, Rv. 284556 – 01).

In virtù della valutazione estrinsecata, in modo incensurabile, dalla Corte di appello, è uscito confermato il giudizio formulato nella sentenza di primo grado secondo cui B. e A. M. cogestivano, sia pure con il ruolo preminente del primo, la società in accomandita semplice, poi fallita.

A riprova della fondatezza di questo approdo è emerso anche l’infungibile compito svolto dall’imputata, la quale rilasciava personalmente, sottoscrivendoli, gli assegni dati in pagamento ai fornitori: compito che ordinariamente sottende la partecipazione a un ruolo decisorio nella gestione dell’impresa societaria e, comunque, implica la completa consapevolezza delle operazioni economiche della società e la disponibilità delle risorse facenti capo alla stessa e utilizzate per il loro compimento.

Il presupposto di fatto addotto dalla difesa per giustificare la partecipazione di A. M. alla gestione della società, individuato nella predicata condizione in cui si trovava B. M., ossia di soggetto attinto da protesti e, come tale, inabilitato all’emissione degli assegni, non determinava, né determina di per sé la qualificazione di amministratrice apparente in capo all’imputata, le attività in concreto svolte dalla stessa esorbitando in modo netto da quelle a cui di consueto è relegato il soggetto definibile come testa di legno, ossia quello investito soltanto nominalmente, ma fittiziamente, della carica di amministratore della società.

3.3. La complessiva articolazione della doglianza, al di là delle spinte rivalutative che la punteggiano e dell’assenza di dimostrazione, oltre che di compiuta deduzione, di eventuali travisamenti delle prove, si infrange, pertanto, sul congruo assetto argomentativo posto dalla Corte di appello alla base della sentenza impugnata.

4. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

Consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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