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Quale reato ricorre per l’utilizzo indebito dei dati di una carta per pagamenti o prelievi?

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Cass. pen., sez. II, 22/02/2024 (ud. 22/02/2024, dep. 18/04/2024), n. 16349 (Pres. Rago, Rel. Cersosimo)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Suprema Corte nel caso di specie, riguardava quale reato integra la condotta di colui che, senza realizzare frodi informatiche, utilizzi indebitamente i dati relativi ad una carta di debito o di credito per effettuare pagamenti o prelievi di denaro.

Ma, prima di vedere come il Supremo Consesso ha trattato siffatta questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

La Corte di Appello di Napoli confermava una sentenza emessa dal Tribunale di Torre Annunziata, con cui l’imputato era stato condannato alla pena di mesi 8 di reclusione ed euro 300,00 di multa in relazione al reato di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007.

Ciò posto, avverso questa decisione il difensore dell’accusato proponeva ricorso per Cassazione e, tra  i motivi ivi addotti, costui deduceva inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., nonché carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione conseguente alla mancata valutazione dei motivi di appello.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Suprema Corte riteneva il motivo suesposto infondato, reputando corretto l’operato dei giudici di merito, avendo costoro fatto una corretta applicazione del principio di diritto secondo cui la condotta di colui che, senza realizzare frodi informatiche, utilizzi indebitamente i dati relativi ad una carta di debito o di credito per effettuare pagamenti o prelievi di denaro, perfeziona il delitto di indebita utilizzazione di cui all’art. 55, comma 9, del d.l.gs. 231/2007 (oggi 493-ter cod. pen.) e non i reati di cui agli artt. 615-ter, 615-quater e 640-ter cod. pen. (vedi Sez. 2, n. 32440 del 10/07/2003; Sez. 2, n. 50395 del 30/10/2019; da ultimo Sez. 2, n. 49953 del 26/10/2023).

I risvolti applicativi

L’uso improprio dei dati di una carta di debito o credito per effettuare pagamenti o prelievi senza commettere frodi informatiche costituisce il reato di indebita utilizzazione di cui all’art. 493-terc.p.[1].

[1]Ai sensi del quale: “Chiunque al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera gli strumenti o i documenti di cui al primo periodo, ovvero possiede, cede o acquisisce tali strumenti o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi. In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per il delitto di cui al primo comma è ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché del profitto o del prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, la confisca di beni, somme di denaro e altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto. Gli strumenti sequestrati ai fini della confisca di cui al secondo comma, nel corso delle operazioni di polizia giudiziaria, sono affidati dall’autorità giudiziaria agli organi di polizia che ne facciano richiesta”.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 2 Num. 16349 Anno 2024

Presidente: RAGO GEPPINO

Relatore: CERSOSIMO EMANUELE

Data Udienza: 22/02/2024

Data Deposito: 18/04/2024

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G. C. nato il … in …

avverso la sentenza del 08/09/2023 della Corte di Appello di Napoli

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Emanuele Cersosimo;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Molino, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. C. G., a mezzo del suo difensore, propone ricorso per cassazione avverso la sentenza dell’08 settembre 2023 con la quale la Corte di Appello di Napoli, ha confermato la sentenza emessa, in data 7 marzo 2018, con la quale il Tribunale di Torre Annunziata, lo ha condannato alla pena di mesi 8 di reclusione ed euro 300,00 di multa in relazione al reato di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007.

2. Il ricorrente, con il primo motivo di impugnazione, lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen. nonché carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione conseguente alla mancata valutazione dei motivi di appello.

La Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato che le doglianze difensive erano state già esaminate e risolte dal primo giudice senza tenere conto che le doglianze contenute nell’atto di appello sono nate esclusivamente a seguito della riqualificazione giuridica del fatto cui ha proceduto il Tribunale all’esito della discussione delle parti.

I giudici di appello avrebbero erroneamente fatto riferimento ad una decisione della Suprema Corte secondo cui il reato di cui all’art. 640-ter cod. pen. deve essere riqualificato nel reato di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007 allorquando l’indebito utilizzo di una carta di debito/credito non sia accompagnato da frodi informatiche, senza tenere conto che il G. sarebbe imputato del diverso reato cui all’art. 615-quater cod. pen.

Secondo il ricorrente, essendo intervenuta sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. per i reati di cui agli artt. 615-ter e 640-ter cod. pen. conseguente alla remissione di querela da parte della persona offesa, il Tribunale non poteva riqualificare la contestata violazione dell’art. 615-quater nel diverso reato di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007.

3. Il ricorrente, con il secondo motivo di impugnazione, lamenta la violazione degli artt. 521 cod. proc. pen. e 6 CEDU.

Il Tribunale avrebbe proceduto alla trasformazione radicale degli elementi essenziali del fatto contestato con conseguente violazione dei diritti di difesa dell’imputato che si è trovato “a subire conseguenze più sfavorevoli per effetto del mutamento del nomen iuris” (vedi pag. 5 del ricorso).

L’originaria contestazione è stata riqualificata nel reato più grave di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007 senza permettere all’imputato di conoscere l’addebito in tempo utile per svolgere la propria linea difensiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile per le ragioni che seguono.

1. Il primo motivo di impugnazione è manifestamente infondato.

1.1. L’affermazione difensiva secondo cui il Tribunale non poteva procedere alla riqualificazione del fatto essendo intervenuta sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. a seguito di remissione della querela in relazione ai reati di cui agli artt. 615-ter e 640-ter cod. pen. è destituita di fondamento.

L’accesso agli atti, consentito ed anzi necessario in caso di questioni processuali, comprova che il Tribunale, diversamente da quanto affermato nel ricorso, non ha emesso alcuna sentenza ex art. 129 cod. proc. pen. nei confronti del G., come specificamente accertato dal Collegio mediante la richiesta

di trasmissione atti inviata alla Cancelleria del Tribunale di Torre Annunziata in data 19 febbraio 2024.

1.2. Il Tribunale, correttamente esercitando il potere di qualificazione giuridicadel fatto, ha ritenuto la condotta descritta nel capo di imputazione nei seguentitermini fattuali: “dopo essersi abusivamente procurato gli estremi identificativi ed il codice di accesso della carta di credito nr. … di Z. L., intervenendo senza diritto sul sistema telematico di Cartasì ed operando al posto del titolare, disponevano in data 29.11.2015 un’operazione on line di pagamento per euro 160,30…in data 08.12.2015 un’operazione on line di pagamento per euro 66,00…in data 08.12.2015 un’operazione di acquisto on line per euro 158,59… così procurandosi un ingiusto vantaggio patrimoniale con uguale danno per Z. L. pari all’importo fraudolentemente addebitato” idonea a perfezionare esclusivamente il reato procedibile di ufficio di cui all’art. 55 d.l.gs. 231/2007 e non le fattispecie incriminatrici cumulativamente indicate in rubrica (81 cpv., 615-ter, 615-quater e 640-ter cod. pen.), con conseguente irrilevanza della sopravvenuta remissione di querela da parte della persona offesa.

La Corte territoriale ha condiviso tale decisione del primo giudice sottolineando come l’istruttoria dibattimentale abbia dimostrato che il G., non è fraudolentemente intervenuto sul sistema informatico per impadronirsi degli estremi identificativi ed i codici di accesso della carta di credito della Z. ma si è limitato ad utilizzare abusivamente tali dati -fornitigli da terzi non identificati- per effettuare le tre operazioni indicate nel capo di imputazione.

Entrambi i giudici di merito hanno correttamente applicato il principio di diritto secondo cui la condotta di colui che, senza realizzare frodi informatiche, utilizzi indebitamente i dati relativi ad una carta di debito o di credito per effettuare pagamenti o prelievi di denaro, perfeziona il delitto di indebita utilizzazione di cui all’art. 55, comma 9, del d.l.gs. 231/2007 (oggi 493-bis cod. pen.) e non i reati di cui agli artt. 615-ter, 615-quater e 640-ter cod. pen. (vedi Sez. 2, n. 32440 del 10/07/2003, omissis, Rv. 226259-01; Sez. 2, n. 50395 del 30/10/2019, omissis, Rv. 278007-01; da ultimo Sez. 2, n. 49953 del 26/10/2023, omissis, non massimata).

2. Il secondo motivo di impugnazione con il quale è eccepita violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. è manifestamente infondato.

2.1. Entrambe le motivazioni non sono contraddistinte da alcuna violazione del principio di corrispondenza previsto dall’art. 521 cod. proc. pen.: i giudici di merito si sono limitati ad una maggiore specificazione dell’attività criminosa dettagliatamente descritta nel capo di imputazione in quanto, dagli atti acquisiti sull’accordo delle parti ai sensi dell’art. 493, comma 3, cod. proc. pen. e, quindi, a piena conoscenza delle parti in un momento antecedente alla definizione del giudizio di primo grado, è emerso come l’imputato non abbia ottenuto il numero della carta di credito mediante un abusivo accesso al sistema informatico ma attingendo tali informazioni “da un archivio predisposto da altri” (vedi pag. 4 della sentenza impugnata).

Va ricordato, in proposito, che il principio della correlazione tra contestazione e sentenza può ritenersi violato unicamente in caso di assoluta e reale difformità tra l’accusa e la statuizione del giudice, nel senso che i fatti devono essere diversi nei loro elementi essenziali, tanto da determinare una incertezza

sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, condizioni sicuramente non ravvisabili nel caso di specie.

Pertanto, l’indagine volta ad accertare la eventuale violazione del principio sopra indicato non può esaurirsi nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza, dal momento che la violazione deve ritenersi insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia trovato nella condizione di difendersi in ordine all’oggetto della imputazione (vedi Sez. 5, n. 3330 del 06/20/2022, dep. 2023, omissis, non massimata; Sez. 3, n. 18855 del 23/02/2022, omissis, non massimata).

Il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è, infatti, funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato, ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile solo quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, nel senso che risultano variati o trasformati gli elementi costitutivi dell’ipotesi di reato descritta nel capo

di imputazione, e non già quando gli elementi essenziali che caratterizzano la qualificazione giuridica del fatto sono rimasti invariati e ad essi risultano aggiunti ulteriori particolari del fatto, in merito ai quali l’imputato ha comunque avuto modo di difendersi (vedi Sez. 2, n. 12328 del 24/10/2018, omissis, Rv. 276955-01; Sez.3, n. 7146 del 04/02/2021, omissis, Rv. 281477- 01).

In definitiva, anche a fronte di una apparente diversità tra la prospettazione dell’imputazione e la concreta ricostruzione in sentenza, non sussiste alcuna violazione del principio dell’art. 521 cod. proc. pen. allorquando i punti rilevanti della imputazione siano chiaramente delineati e comunque sia prevedibile il loro ulteriore sviluppo in giudizio, risultando chiaro come indirizzare l’esercizio in concreto del diritto di difesa (vedi Sez. 6, n. 50151 del 26/11/2019, omissis, Rv. 277727 – 01).

2.2. Applicando tali principi alla fattispecie in esame non vi è dubbio che le sentenze di merito abbiano individuato le condotte illecite di cui al capo i l’imputazione sul fondamento di una ricostruzione dei fatti fondata su elementi logico-fattuali a conoscenza dell’imputato fin dalla fase delle indagini preliminari e che la riqualificazione giuridica disposta dal primo giudice non ha, pertanto, comportato alcuna compressione dell’esercizio del diritto di difesa in considerazione del fatto che l’imputazione enunciava in termini chiari e sufficientemente completi, gli elementi essenziali degli addebiti.

La Corte territoriale ha motivato, con percorso iter argomentativo esente da vizi logici manifesti, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 55, comma 9, del d.l.gs. 231/2007, fondando tale affermazione su di una compiuta e logica analisi critica degli elementi di prova e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della univocità, sottraendosi, di conseguenza, ad ogni censura in questa sede.

3. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

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