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Non è configurabile il delitto di diffamazione militare a mezzo della pubblicità se compiuto all’interno di una chat

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Cass. pen., sez. I, 19/05/2023 (ud. 19/05/2023, dep. 14/09/2023), n. 37618 (Pres. Mogini, Rel. Magi)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 227, co. 2, c.p.m.p.)

Indice

La questione giuridica

La questione giuridica, su cui era chiamata a decidere la Cassazione nella pronuncia qui in commento, riguardava se il delitto di diffamazione di cui all’art. 227 c.p.m.p. (al cui primo comma è per l’appunto stabilito che il “militare,  che,  fuori dei casi  indicati  nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la  reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un  più grave reato, con la  reclusione  militare  fino  a  sei  mesi”, possa essere configurabile a norma del comma secondo di questo articolo (ai sensi del quale: “Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o  con  qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena  è della reclusione militare da sei mesi a tre anni”), qualora questo reato sia stata compiuto all’interno di una chat.

Nel caso di specie, difatti, la Corte Militare di Appello, nel dichiarare non doversi procedere nei confronti dell’imputato in riferimento al reato di cui all’art. 227 comma 1 cod. pen. mil. pace, così riqualificata l’originaria imputazione (art. 227 comma 1 e comma 2 cod. pen. mil. pace), per mancanza della richiesta di procedimento, addiveniva a siffatta conclusione ritenendo come dovesse escludersi che l’utilizzo della chat ristretta potesse far ritenere integrata l’ipotesi dell’offesa recata con un mezzo di pubblicità.

Orbene, avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale Militare, il quale deduceva erronea applicazione di legge in riferimento alla ricorrenza della circostanza aggravante dell’offesa arrecata con il mezzo di pubblicità.

Difatti, il PG ricorrente sosteneva come la soluzione in diritto adottata dalla Corte Militare di Appello, con esclusione della aggravante, fosse erronea, citandosi all’uopo arresti della Corte di legittimità in cui si è ritenuto: a) che l’aggravante sussista in caso di post pubblicati sulla piattaforma Facebook; b) in caso di invio plurimo di mail; c) in caso di utilizzo del fax.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Suprema Corte riteneva il ricorso suesposto infondato.

Difatti, per gli Ermellini, se è vero che la giurisprudenza della stessa Cassazione ha ritenuto che la pubblicazione di post lesivi sulla piattaforma social Facebook integri l’aggravante del mezzo di pubblicità, come ricordato dal PG ricorrente, essendo in tal senso indicate le decisioni Sez. I n. 55142 del 2014 e Sez. V n. 13979 del 25.1.2021, ove si pone l’accento sulla oggettiva potenzialità che, in tal caso, ha il testo lesivo di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone, è altrettanto vero però che vi è una rilevante diversità tra l’utilizzo di un social (strumento che si rivolge – per definizione ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata) e l’utilizzo di una chat di messaggistica ristretta.

Ad essere rilevante, invero, per i giudici di piazza Cavour, non è il numero di iscritti alla chat (nel caso in esame davvero poco significativo), quanto la conformazione tecnica del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta – in tutta evidenza – riservato.

La diffusione del messaggio a più soggetti – gli iscritti alla chat – avviene, in altre parole, in un contesto informatico che, se da un lato consente la rapida divulgazione del testo, dall’altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone.

La tensione con il principio di tassatività in ambito penale, ove si voglia realizzare una equiparazione tra i diversi strumenti comunicativi, in rapporto ad una previsione di legge ove si evoca un ‘mezzo di pubblicità’, appariva essere, per la Corte, del tutto evidente e ciò comportava il rigetto del ricorso in questione.

I risvolti applicativi

Ove un comportamento diffamatorio sia commesso da un militare all’interno di una chat, costui non rispondere del delitto di diffamazione militare per mezzo di pubblicità.

Ove quindi un milite sia accusato di un reato di queste genere in tale specifica ipotesi, ben si potrà elaborare una valida linea difensiva volto a scagionarlo, richiamando questa pronuncia.

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