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L’intermediario può concorrere nel delitto di estorsione?

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Cass. pen., sez. VI, 29/02/2024 (ud. 29/02/2024, dep. 28/03/2024), n. 13050 (Pres. De Amicis, Rel. Gallucci)

(Riferimento normativo: Cod. pen., artt. 110; 629)

Indice

La questione giuridica

Una delle questioni giuridiche, affrontate dalla Cassazione nel caso di specie, riguardava se l’intermediario possa concorrere nel delitto di estorsione a norma del combinato disposto articoli 110 e 629 cod. pen..

Ma, prima di vedere come la Suprema Corte ha affrontato tale questione, esaminiamo brevemente il procedimento in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento.

La Corte di Appello di Napoli, decidendo in esito ad annullamento con rinvio della sentenza della Corte di Appello di Salerno, disposto dalla Corte di Cassazione, in riforma di quella di primo grado e ritenuta l’ulteriore circostanza aggravante contestata (art. 7 dl. n. 152 del 1991 — ora art. 416 bis.1 cod. pen.) – avendo il Tribunale già ritenuto sussistente quella delle “più persone riunite”, di cui art. 629, comma 2, in riferimento all’art. 628, comma 3, n. 1 cod. pen. – rideterminava la pena inflitta in anni tre di reclusione ed euro 400 di multa, oltre alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Ciò posto, avverso questa decisione la difesa dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione e, tra i motivi ivi addotti, costei deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della penale responsabilità dell’accusato a titolo di concorso nella tentata estorsione.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

Il Supremo Consesso riteneva il motivo suesposto infondato alla luce di quell’orientamento nomofilattico secondo il quale «ai fini dell’integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita; ne consegue che anche l’intermediario, nelle trattative per la determinazione della somma estorta, risponde del reato di concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l’interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana» (ex multis, Sez. 2, n. 6824 del 18/01/2017), reputandosi siffatta finalità non sussistente nel caso di specie.

I risvolti applicativi

Per il concorso di persone nell’estorsione, è sufficiente la volontà e la consapevolezza di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo del soggetto che commette l’atto illecito.

Di conseguenza, anche un intermediario nelle trattative per stabilire la somma estorta può essere considerato partecipe nel reato quale concorrente, a meno che il suo coinvolgimento miri esclusivamente a tutelare gli interessi della vittima per motivi di solidarietà umana.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 6 Num. 13050 Anno 2024

Presidente: DE AMICIS GAETANO

Relatore: GALLUCCI ENRICO

Data Udienza: 29/02/2024

Data Deposito: 28/03/2024

SENTENZA

sul ricorso proposto da

M. F., nato a … il …

avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 17/11/2022;

visti gli atti e la sentenza impugnata;

esaminati i motivi del ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Enrico Gallucci;

sentite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto che la sentenza impugnata venga annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato;

sentiti i difensori dell’imputato, Avvocati P. S., in sostituzione dell’Avvocato A. D., e P. S., che si sono associati alla richiesta del Procuratore generale.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 17 novembre 2022 (motivazione depositata il 9 febbraio 2023), decidendo in esito ad annullamento con rinvio della sentenza della Corte di appello di Salerno, disposto da questa Corte, Sez. 2, n. 38823 del 25 giugno 2019, in riforma di quella di primo grado e ritenuta l’ulteriore circostanza aggravante contestata (art. 7 dl. n. 152 del 1991 — ora art. 416 bis.1 cod. pen.) – avendo il Tribunale già ritenuto sussistente quella delle “più persone riunite”, di cui art. 629, comma 2, in riferimento all’art. 628, comma 3, n. 1 cod. pen. – ha rideterminato la pena inflitta a F. M. in anni tre di reclusione ed euro 400 di multa, oltre alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

La statuizione di condanna è relativa al delitto di tentata estorsione (così qualificata l’originaria imputazione di estorsione consumata), pluriaggravata e in concorso, a danno di G. G..

2. Avverso la sentenza di appello l’imputato ha presentato, a mezzo dei propri difensori, ricorso nel quale deduce sei motivi.

2.1. Il primo motivo è relativo alla violazione dell’art. 545-bis cod. proc. pen. in relazione alla disciplina transitoria stabilita dall’art. 95 del d.lgs. n. 150 del 2022. Sul punto, si evidenzia che, poiché la pena inflitta all’imputato è inferiore a quattro anni di reclusione, la Corte di appello avrebbe dovuto attivare il meccanismo finalizzato alla possibile applicazione delle pene sostitutive di cui all’art. 20-bis cod. pen., la cui omissione integra violazione dell’art. 178 lett. c) cod. proc. pen.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della penale responsabilità di M. a titolo di concorso nella tentata estorsione. Egli, infatti, non è l’autore della richiesta estorsiva nei confronti del G. e si è limitato, al più, ad esser presente nel momento in cui altri soggetti (P. M. e E. M.) avevano minacciato la persona offesa; né è ipotizzabile a suo carico il ruolo di “intermediario”, considerato che, da un lato, egli non è stato latore di alcuna richiesta estorsiva e non ha posto in essere atti finalizzati a dissuadere G. a sottrarsi a dette pretese, e, dall’altro lato, risulta che lo stesso M. è stato, a propria volta, vittima di coartazione da parte degli stessi soggetti, avendo dunque agito con l’esclusivo scopo di consigliare per il meglio il G..

Sotto altro profilo, la sentenza impugnata, si deduce, non ha ottemperato all’indicazione della pronuncia rescindente che aveva demandato al giudice del rinvio la verifica della sussistenza anche della penale responsabilità del M. in riferimento proprio al concreto ruolo da questi svolto nella vicenda. Ancora, gravemente illogica è la motivazione della Corte territoriale in riferimento ai contributi dichiarativi del P. e S., che dovevano essere valutati ai sensi dell’art. 192 comma 3 cod. proc. pen., e in ordine ai quali si è incorsi in un evidente travisamento della prova.

2.3. Con il terzo motivo si eccepisce che la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza dell’aggravante della “mafiosità”. Invero, il ritenuto utilizzo del “metodo mafioso” nel corso della minaccia estorsiva non ha tenuto conto del fatto che il P. non apparteneva ad associazione ex art. 416-bis cod. pen. né questi agì per favorirne alcuna e che, comunque, difettano i caratteri per poter inferire che tale minaccia fosse caratterizzata dal “metodo mafioso”.

2.4. Con il quarto, articolato motivo, si eccepisce che la sentenza impugnata ha fatto erronea applicazione delle norme penali in tema di circostanze e di giudizio di bilanciamento con le aggravanti, avendo perdipiù violato il divieto di reformatio in peius. Invero, il giudice del primo appello aveva ritenuto le aggravanti subvalenti rispetto alle attenuanti generiche, mentre la sentenza impugnata le ha ritenute prevalenti (nel dispositivo) rispetto alla sola aggravante di cui al secondo comma dell’art. 629 cod. pen. Inoltre, anche la determinazione della pena per il tentativo non è corretta; infine, mentre la Corte salernitana aveva fissato la pena nel minimo edittale, quella impugnata ha inflitto la pena in misura sensibilmente superiore a detto minimo, senza fornire sul punto alcuna motivazione.

2.5. Il quinto motivo deduce la intervenuta prescrizione del reato (come già richiesto in sede di appello), in considerazione del fatto che doveva trovare applicazione la più favorevole disciplina della prescrizione antecedente alla riforma del 2005 e che, essendosi ritenuta l’ipotesi del tentativo ed essendo state giudicate le circostanze attenuanti prevalenti rispetto alle aggravanti il termine massimo di prescrizione va fissato in quindici anni e, risalendo il reato al 2002, esso è ampiamente maturato.

2.6. Con il sesto motivo, infine, si eccepisce la illegittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio dell’estorsione che, rispetto al delitto di rapina, presenta una pena più elevata in assenza di plausibili ragioni che possano giustificare tale diversità; anzi, la rapina presuppone una minaccia che non lasci libertà di scelta alla persona offesa e dunque è certamente maggiormente lesiva del bene giuridico tutelato rispetto a quella che connota l’estorsione ma per essa è stabilita una pena meno afflittiva; in tal modo è violato anche il principio di proporzionalità tra sanzione penale e offesa provocata dal reato, profilo già ritenuto rilevante dalla Corte cost. (sent. n. 341 del 1994).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è parzialmente fondato.

2. Il primo motivo, nel quale si eccepisce violazione della disciplina transitoria delle pene sostitutive, è manifestamente infondato. Invero, non risulta che sia stata formulata nel corso del giudizio di appello alcuna richiesta in merito. Al riguardo va ribadito il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui «in tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell’udienza di discussione in appello» (Sez. 6, n. 33027 del 10/05/2023, omissis, Rv. 285090 – 01).

3. Infondato è il secondo motivo, relativo alla configurabilità del concorso a carico dell’imputato, profilo oggetto dell’annullamento con rinvio. Sul punto la pronuncia rescindente di legittimità aveva precisato che «il difetto di motivazione si rinviene con riguardo alla diversa valutazione della testimonianza dell’offeso nella parte in cui egli descrive i suoi rapporti con il M. e le concrete modalità di svolgimento della vicenda estorsiva, specie con riguardo al tema della compensazione della somma estorta; in relazione a tali aree tematiche, oggetto di specifica censura, la decisione non rispetta l’obbligo di motivazione rafforzata che incombe sul giudice di secondo grado che valuta prove decisive in modo antagonista rispetto al primo giudice.

Il ricorso è, pertanto, fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio limitatamente alla posizione del M.».

3.1. La sentenza impugnata ha emendato il vulnus motivazionale, argomentando in modo adeguato circa la sussistenza della penale responsabilità dell’imputato che – e il dato è pacifico – ha organizzato l’incontro tra G. e i due soggetti (E. e P.) nel corso del quale costoro hanno profferito la pretesa estorsiva che veniva “accettata” dalla persona offesa (duemila euro per evitare “fastidi” nell’attività edile del G.).

La Corte territoriale, in merito al contributo prestato dal M., lo precisa sei seguenti termini (pag. 10): “posto che certamente il M. partecipò consapevolmente all’incontro avvenuto tra il G. e gli estorsori … è indubbio che … ha di fatto agevolato la condotta di questi ultimi, organizzando l’incontro con il G., fomentando il timore nell’animo di questi in relazione alla pericolosità dei soggetti e rivolgendogli sguardi eloquenti per invitarlo ad aderire alla richiesta estorsiva”.

3.2. Inoltre, la sentenza impugnata evidenzia che un soggetto sentito ex art. 210 cod. proc. pen. (S.) ha riferito che “M. F. lo aiutò a chiudere una estorsione il M. si mise a disposizione per aiutarlo nel settore delle estorsioni; si occupava di raccogliere le rate delle estorsioni, ottenendo, in cambio, delle agevolazioni sul prezzo che doveva pagare per le forniture di cemento da parte delle ditte indicate dal clan. Ha precisato che i suoi rapporti diretti con il P. e il M. risalivano alla primavera successiva alla sua scarcerazione (ottobre 2002); in tale periodo – quando il S. riprese i vari contatti con l’ambiente criminale ad A. – apprese dagli stessi P., M. ed E. M. che costoro avevano operato insieme nel settore delle estorsioni … ” (pag. 9). Dichiarazioni che danno conferma del modus operandi seguito dal M..

In relazione alle doglianze relative alla valutazione di attendibilità dei collaboratori di giustizia va rilevato che esse sono state già dichiarate inammissibili dalla sentenza di annullamento “in quanto avanzate per la prima volta in questa sede” e la relativa eccezione in questa sede è chiaramente preclusa.

3.3. Per quanto poi concerne il ruolo svolto dall’imputato (qualificato nella sentenza e nel ricorso come “intermediario”), è pacifico nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 2, n. 6824 del 18/01/2017, omissis, Rv. 269117 – 01) che «ai fini dell’integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita; ne consegue che anche l’intermediario, nelle trattative per la determinazione della somma estorta, risponde del reato di concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l’interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana», finalità, questa, chiaramente da escludersi nel caso in esame.

4. Inammissibile è il terzo motivo, nel quale si è dedotta la non configurabilità dell’aggravante della mafiosità. In primo luogo la sentenza rescindente ha ritenuto la relativa censura contenuta nel ricorso del M. “inammissibile per le ragioni esposte sub § 1.2.”, ove si era così espressa: «Nel caso in esame la Corte territoriale con valutazione di merito insindacabile in questa sede in quanto coerente sia con le emergenze processuali, che con le ricordate linee ermeneutiche rilevava che l’atteggiamento tenuto dal ricorrente [E. M.] caratterizzato dall’esplicito riferimento alla partecipazione ad un temuto gruppo criminale consentiva il riconoscimento dell’aggravante contestata (pag. 42 della sentenza impugnata)».

4.1. Inoltre, «ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso, di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, non occorre che sia dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo necessario solo che la violenza o la minaccia assumano la veste propria della violenza o della minaccia mafiosa, ossia di quella ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti, sicché, una volta accertato l’utilizzo del metodo mafioso, l’aggravante, avente natura oggettiva, si applica a tutti i concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state materialmente commesse solo da alcuni di essi» (Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, omissis, Rv. 285018 – 02); elementi, questi, chiaramente rinvenibili nelle condotte minacciose nei confronti di G..

4.2. Neppure può escludersi la sussistenza della fattispecie – aggravata ex art. 416 bis.1-in ragione dell’atteggiamento “accomodante” del G., che ha negoziato al ribasso l’entità del pizzo. Infatti, «in tema di estorsione, la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso nonè esclusa dal fatto che la vittima delle minacce abbia assunto un atteggiamento “dialettico” rispetto alle ingiuste richieste, ciò non determinando il venir meno della portata intimidatoria delle stesse. (Fattispecie in cui la Corte ha valutato corretta la decisione con la quale si era escluso che la riduzione, da parte della vittima, della somma da consegnare nell’immediato all’estorsore, che ne pretendeva una d’importo più elevato, facesse venir meno la particolare e qualificata portata intimidatoria della richiesta estorsiva e, quindi, la sussistenza dell’aggravante)» (Sez. 2, n. 6683 del 12/01/2023; omissis, Rv. 284392 – 01).

5. Anche il quarto motivo – con il quale si deduce violazione del divieto di reformatio in peius – è manifestamente infondato. Invero, a fronte della condanna per la ritenuta ipotesi della tentata estorsione a quattro anni di reclusione, inflitta in primo grado, la Corte di appello di Salerno condannava l’imputato – qualificando il fatto come delitto consumato – alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione. La sentenza impugnata ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di tentativo di estorsione, applicando una pena inferiore sia a quella irrogata in primo grado, sia a quella del primo appello (la differenza rispetto a quest’ultima è comunque pari al terzo ex art. 56 cod.pen: Corte di Salerno = quattro anni e sei mesi; Corte di Napoli = tre anni).

Di tal che, non può configurarsi alcun illegittimo aggravamento sanzionatorio. Peraltro, il passaggio da delitto consumato (primo appello) a delitto tentato (secondo appello) ha determinato, come si vedrà, un significativo vantaggio per l’imputato in ordine al termine massimo di prescrizione.

6. Fondato è, invece, il quinto motivo con il quale si è invocata l’intervenuta prescrizione; conclusione, questa, condivisa dal Procuratore generale.

6.1. Invero, ratione temporis commissi delictí, la disciplina applicabile in tema di prescrizione, in quanto maggiormente favorevole nel caso di specie, è quella antecedente alla l. n. 251 del 2005 (c.d. legge ex Cirielli). La fattispecie è stata qualificata in termini di tentativo ed è pluriggravata (in particolare dalla circostanza delle “più persone riunite” e da quella della “mafiosità”). La pena massima per l’ipotesi base di estorsione è di dieci anni di reclusione e su questa deve essere applicato l’aumento massimo stabilito per la circostanza di cui all’art. 7 dl. n. 152 del 1991 (ora art. 416 bis.l. cod. pen.) – che, sin dalla sua introduzione, è sottratta al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. – pari alla metà; invece, l’altra aggravante, ancorchè ad effetto speciale, non è esclusa dal “bilanciamento”, ed è dunque elisa dalle attenuanti generiche ritenute, quanto meno, equivalenti (anche se il dispositivo della sentenza impugnata le qualifica come “prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 629, comma 2, cod. pen.”).

Pertanto, si torna alla pena massima per l’ipotesi non aggravata, che deve però essere aumentata ex art. 7 cit., determinandosi la pena in quindici anni, che va ridotta di un terzo ex art. 56 cod. pen. tornandosi quindi a dieci anni.

6.2. Nel calcolo del tempo massimo di prescrizione non può applicarsi il particolare regime degli atti interruttivi, introdotto dalla In. 251 per i delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis cod. proc. pen. (tra i quali rientra il fatto contestato) in quanto esso è successivo alla commissione del reato e più sfavorevole. Dunque, il termine massimo di prescrizione, comprese le interruzioni, è pari a quindici anni (dieci più l’aumento della metà ex art. 161 cod. pen., nella formulazione allora vigente) e, risalendo i fatti al 2002, anche considerando i periodi di sospensione, il reato è ampiamente prescritto.Infine, va precisato che l’annullamento con rinvio della prima sentenza di appello è relativo alla configurabilità del reato – e dunque alla responsabilità penale – e non ha dunque “bloccato” la prescrizione (Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019, M., Rv. 278050 – 01).

7. Il sesto motivo di ricorso risulta assorbito, tenuto conto che la dedotta questione di legittimità costituzionale risulta irrilevante in considerazione della declaratoria di intervenuta prescrizione.

P. Q. M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.

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