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La Cassazione definisce i requisiti dell’art. 603-bis del codice penale: un’analisi approfondita

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Cass. pen., sez. IV, 05/12/2023 (ud. 05/12/2023, dep. 22/01/2024), n. 2573 (Pres. Piccialli, Rel. Giordano)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 603-bis)

Indice

La questione giuridica

La Cassazione, nella decisione in esame, esamina molti aspetti che riguardano il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Difatti, a fronte del fatto che l’art. 603-bis cod. pen., come è noto, dispone, da un lato, che, salvo “che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno” (comma primo), dall’altro, che, ai “fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti” (comma terzo)”, in questa pronuncia, i significati, da conferire a molti di queste parole impiegate in tale dettato normativo, e segnatamente le parole “sfruttamento”, “retribuzioni”, “palesemente difforme”, “comunque”, oltre a cosa debba intendersi per organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, trovano una precisa risposta in siffatto provvedimento.

Inoltre, tenuto conto che l’art. 603-bis.2 cod. pen. dispone che in “caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti previsti dall’articolo 603-bis, è sempre obbligatoria, salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato”, la Suprema Corte, sempre in questo provvedimento, chiarisce altresì cosa può essere oggetto di confisca ove si sia condannati per un delitto di questo genere.

Pur tuttavia, prima di vedere come la Cassazione ha deciso in proposito, va prima di tutto osservato che nel procedimento, in occasione del quale è stata emessa la sentenza qui in commento, la Corte di Appello di Palermo aveva confermato una sentenza pronunciata dal Tribunale di Marsala con cui gli imputati erano stati condannati in relazione al reato di sfruttamento del lavoro aggravato ex art. 603-bis, comma 1, n. 2 cod. pen., per avere utilizzato nella loro azienda agricola la manodopera di quattro lavoratori extracomunitari con una retribuzione media di 3 euro l’ora per giornate lavorative di 9 ore, nonché veniva disposta la confisca dei terreni di loro proprietà ove prestavano attività i lavoratori sfruttati; invece, gli imputati venivano assolti perché il fatto non sussiste dal reato di intermediazione fittizia ex art. 603-bis, comma 1, n. 1 cod. pen. in relazione al reclutamento di uno di tali lavoratori per destinarlo al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento.

Ciò posto, avverso la decisione emessa dai giudici di seconde cure ambedue gli accusati, per il tramite del loro difensore, proponevano ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti motivi: 1) erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione avendo il giudice, ai fini dell’indicizzazione dello sfruttamento, parametrato le paghe dei lavoratori alla retribuzione prevista dal CCNL di categoria ritenendo che non vi sia la ritenuta macroscopica sproporzione tra la retribuzione di 55 euro netti al giorno previsti dal contratto collettivo e gli effettivi 45 euro netti al giorno attribuiti ai lavoratori; 2) erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla mancata restituzione dei beni oggetto di confisca; 3) nullità della sentenza per la mancata motivazione circa la confisca avendo la Corte d’Appello omesso del tutto di motivare sulle ragioni che avevano condotto a rigettare la richiesta di revoca della confisca.

Come la Cassazione ha affrontato tale questione giuridica

La Suprema Corte, nel rigettare i ricorsi suesposti, come evidenziato in precedenza, ha chiarito il significato di molte delle parole richiamate nell’art. 603-bis, co. 1 e co. 3, cod. pen..

In particolare, dopo essersi osservato che il giudizio sulla sussistenza di tale indice, e in particolare sull’elemento della “palese difformità” o “sproporzione” della retribuzione, è valutazione di fatto riservata al giudice di merito, non sindacabile dal giudice di legittimità, chiamato ad esercitare il controllo dell’uso logico e coerente dei criteri ermeneutici, gli Ermellini notavano che i vari indicatori delle condizioni di sfruttamento del lavoro elencati nei numeri 1)-4) della disposizione complessivamente disegnano il perimetro dell’area semantica della nozione di sfruttamento del lavoro e in quanto tali partecipano alla specificazione dell’oggettività materiale e giuridica nonché del dolo della fattispecie, svolgendo di conseguenza anche una funzione di agevolazione probatoria e di criteri guida per l’interprete (vedi Sez. 4, n. 45615 del 11/11/2021).

Ciascun indicatore è del resto sufficiente ma non necessario per definire la condizione di sfruttamento atteso che, come recita la medesima disposizione, per riscontrarsi in concreto basta “la sussistenza di una o più delle… condizioni”, rilevandosi all’uopo come la giurisprudenza abbia chiarito che la prova dello sfruttamento può derivare anche aliunde (Sez. 4, n. 7857 del 11/11/2021), precisando che l’elencazione degli indici di sfruttamento non ha carattere tassativo potendo il giudice individuare ulteriori condizioni suscettibili di dare luogo alla condotta di abuso del lavoratore.

D’altronde, tali indici, come evidenzia in motivazione Sez. 4, n. 9473 del 30/11/2022, “non precludono l’individuazione di altre condotte che integrino la fattispecie di abuso, posto che essi costituiscono meri indicatori della sussistenza del fatto tipico, che ben può risultare aliunde, purché si concreti l’assoggettamento a condizioni di lavoro cui si subisce l’imposizione” (Vedi anche Sez. 4, n. 7861, del 11/11/2021).

Premesso ciò, a fronte del fatto che, come constatato nella pronuncia qui in commento, nel motivo di ricorso, specificamente, non si dubitava della tassatività della fattispecie ma si lamentava l’uso della discrezionalità nell’interpretazione dell’indice di sfruttamento, sub n. 1) dell’art. 603-bis, cod. pen, costituito dalla “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”, per la Corte di legittimità, si poneva dunque il problema di affrontare la tematica concernente il tema dell’interpretazione dei singoli elementi che integrano tale indice anche con fonti extrapenali, di diritto del lavoro, sindacale, civile, costituzionale atteso che la spiegazione di tali elementi integrativi della norma penale contribuisce a definire l’oggetto del dolo e i margini di ammissibilità dell’errore sulla legge extrapenale ex art. 47 cod. pen..

Orbene, posta la questione in tali termini, per quanto concerne il significato da doversi conferire alla parola “retribuzione”, ad avviso della Suprema Corte, tale termine si riferisce a qualsiasi obbligazione corrispettiva sorta da un contratto avente ad oggetto una prestazione lavorativa pattuita approfittando dello stato di bisogno del lavoratore quale, ad esempio, il corrispettivo per i lavoratori eterorganizzati, tirocinanti, stagisti etc. e tutte le attività che esulano dall’applicazione di qualsiasi contratto collettivo di lavoro.

Invece, l’avverbio “comunque”, utilizzato nell’ultima parte dell’indice n. 1), richiede l’applicazione del parametro in ogni caso a tutti i rapporti di lavoro, comunque titolati, a prescindere dall’ambito applicativo della contrattazione collettiva, in cui vi sia sproporzione quantitativa e qualitativa tra lavoro e corrispettivo seppur accettata, o rectius subita per lo stato di bisogno mentre, viceversa, se si ritenesse di limitare l’applicazione soltanto ai rapporti di lavoro subordinati privati, regolati dalla contrattazione collettiva, non avrebbe alcuna ratio essendi la seconda parte della disposizione e in particolare l’avverbio “comunque”.

Ciò posto, tornando a trattare la “retribuzione”, per i giudici di piazza Cavour, deve altresì rilevarsi che: se la retribuzione, prima della legge 29 ottobre 2016, n. 199, era prevista come “sistematica”, e, invece, dopo tale riforma deve essere “reiterata”, il che non suggerisce più la necessità di una paga costante e nemmeno di un’abitualità, bastando una seconda retribuzione per superare la soglia della punibilità.

Tal che ne discende che non c’è sfruttamento, di conseguenza, per una mera sommatoria di condotte episodiche in danno di lavoratori diversi (sez. 4, n. 45615 del 11/11/21).

La disposizione in esame, tuttavia, prevede anche la corresponsione delle retribuzioni come riferimento all’effettive erogazioni patrimoniali dovute, non a quelle realmente versate (altrimenti paradossalmente andrebbe esente proprio il datore di lavoro che dopo aver ricevuto la prestazione non adempie ad alcuna dazione effettiva), e non al corrispettivo pattuito con accordi illegittimi per dissimulare la sottoretribuzione.

Nella prima parte la disposizione, quindi, assumono – quali parametri per valutare l’inadeguatezza della retribuzione – i contratti collettivi nazionali e territoriali (questi ultimi per tenere in considerazione i settori merceologici quali agricoltura ed edilizia in cui il livello territoriale rileva specificamente per la fissazione del salario) dei sindacati più rappresentativi, dove per maggiore rappresentatività deve intendersi la rappresentatività sindacale effettiva, non solo maggiormente rappresentativa a livello comparativo; di talché potrebbero essere titolate anche nuove associazioni sindacali purché rappresentino un reale numero di iscritti, e vantino la partecipazione alle trattative sindacali per la contrattazione collettiva, con diffusione sul territorio nazionale.

Non necessariamente, quindi, il giudice deve far riferimento al contratto leader ma a quello principale tenendo conto dell’attività effettivamente svolta dal datore e in caso di attività miste a quello dell’attività prevalente.

L’indice de quo, nella prima parte, è per di più incentrato sui dati ut supra che devono evidenziare una “palese difformità” tra previsione contrattuale collettiva, nazionale o territoriale, e retribuzione effettiva.

Ebbene, tale fondamentale (sebbene non unica) soglia di rilevanza penale si fonda sull’inadeguatezza del quantum erogato che non può essere definita in termini percentili dalla norma in ragione delle innumerevoli concrete variabili contrattuali, trattandosi di una retribuzione sostanzialmente imposta da chi approfitta economicamente di chi versa in uno stato di bisogno, portando al ribasso quanto pattuito nel contatto collettivo, eludendo anche le obbligazioni contributive, assicurative, di sicurezza, arrogandosi un’autonomia contrattuale unilaterale in spregio ai principi che presiedono il valore della contrattazione collettiva; pertanto, la difformità dal contratto collettivo è in re ipsa e diventa palese, cioè indice di sfruttamento, quando appare evidente e riscontrabile, in primo luogo, che la retribuzione effettiva corrisposta ai lavoratori in stato di bisogno, rispetto al quantum previsto dai contratti collettivi, dimostri un tale scostamento da ritenere che una reale rappresentanza sindacale, nazionale o territoriale, di entrambe le parti sociali, nelle date condizioni storiche ed economiche, non l’avrebbe di certo condivisa.

In secondo luogo, la “palese difformità” rispetto alle determinazioni della contrattazione collettiva, è concetto che non può essere tenuto distinto dalla sproporzione tra il lavoro prestato e la paga base anche tenendo conto di indennità di lavoro straordinario, notturno, festivo e dimensioni dell’impresa.

Sicché la proporzione tra l’obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato, quale limite costituzionale volto a garantire equità e dignità, deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere “comunque” anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettata posto che l’autonomia delle parti sociali non può derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2, 3, 4, 36 e 41 Cost..

In breve, non v’è proporzione tra retribuzione e lavoro prestato quando, tenendo conto delle variabili mansionali, dell’effettiva prestazione patrimoniale, comprensiva della paga base e delle eventuali indennità, sviluppato un calcolo per un arco di tempo quotidiano, settimanale o mensile, considerato dalla contrattazione o dagli usi, l’importo del corrispettivo non assicurerebbe al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera dal bisogno che lo ha costretto ad accettare quelle date condizioni di lavoro e tale deve considerarsi una retribuzione al di sotto della soglia di povertà assoluta pur sempre in presenza dell’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore.

Ad ogni modo, tale sproporzione nel caso concreto non va colta con un semplice raffronto tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e quindi tenendo conto dell’attività, delle complessive condizioni di lavoro, e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente.

Chiarito ciò, per quanto invece riguarda la confisca preveduta dall’art. 603-bis.2 cod. pen., è oggetto di confisca l’azienda, intesa quale complesso di beni funzionali, ove e per la quale si è consumato lo sfruttamento della manodopera e, con particolare riferimento all’azienda agricola, i terreni, i fondi rustici, le pertinenze, le attrezzature, gli impianti, sono il luogo imprescindibile ove funzionalmente viene impiegata la manodopera, ove ci serve dei lavoratori agricoli e che, a sua volta, serve al loro sfruttamento fermo restando che tale pertinenzialità non viene interrotta se, come nel caso concreto, alcuni terreni di proprietà degli imputati (e oggetto di sequestro e poi del provvedimento di confisca) sono diversi da quelli indicati in imputazione, in quanto si tratta pur sempre di fondi agricoli del medesimo compendio aziendale nel quale e per l’utilità del quale i quattro lavoratori africani erano sfruttati.

I risvolti applicativi

L’articolo 603-bis del codice penale prevede pene per chi recluta o sfrutta lavoratori in condizioni di sfruttamento.

La legge considera sfruttamento diverse situazioni, come pagare salari sotto i contratti collettivi, violare norme sul lavoro e sulla sicurezza, o creare condizioni degradanti.

Il concetto di “retribuzione” include qualsiasi forma di pagamento derivante da un contratto di lavoro, anche per stage o tirocini.

L’uso dell’avverbio “comunque” indica che il parametro si applica a tutti i tipi di lavoro, indipendentemente dalla contrattazione collettiva.

I contratti collettivi devono essere effettivamente rappresentativi, e non solo maggiormente rappresentativi a livello comparativo.

La “palese difformità” riguarda la mancanza di proporzionalità tra salario e lavoro svolto, considerando anche le variabili locali e la situazione familiare del lavoratore.

La confisca, infine, riguarda l’azienda o i beni utilizzati per lo sfruttamento, come nel caso di un’azienda agricola dove vengono sfruttati i lavoratori.

Sentenza commentata

Penale Sent. Sez. 4 Num. 2573 Anno 2024

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA

Relatore: GIORDANO BRUNO

Data Udienza: 05/12/2023

Data Deposito: 22/01/2024

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

V. A. nato a … il …

V. S. nato a … il …

avverso la sentenza del 30/01/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere BRUNO GIORDANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FERDINANDO LIGNOLA che ha concluso chiedendo

RITENUTO IN FATTO

1. V. A. e V. S. ricorrono avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo n. 481/23 del 30 gennaio 2023 che confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Marsala del 23 aprile 2021 con cui gli odierni ricorrenti erano condannati in relazione al reato di sfruttamento del lavoro aggravato ex art. 603-bis, comma 1, n. 2 cod. pen., per avere utilizzato nella loro azienda agricola la manodopera di quattro lavoratori extracomunitari con una retribuzione media di 3 euro l’ora per giornate lavorative di 9 ore, fatti accaduti in Marsala e Mazara del Vallo tra luglio e novembre 2017, nonché veniva disposta la confisca dei terreni di loro proprietà ove prestavano attività i lavoratori sfruttati; gli imputati venivano assolti perché il fatto non sussiste dal reato di intermediazione fittizia ex art. 603-bis, comma 1, n. 1 cod. pen. in relazione al reclutamento di uno di tali lavoratori per destinarlo al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento.

2. La difesa di entrambi i ricorrenti lamenta, con tre motivi di ricorso, che la motivazione della sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare o avrebbe motivato contraddittoriamente in relazione alle doglianze già prospettate in appello.

3. In particolare, con un primo motivo di ricorso, la difesa lamenta l’erronea applicazione della legge penale e la contraddittorietà della motivazione avendo il giudice, ai fini dell’indicizzazione dello sfruttamento, parametrato le paghe dei lavoratori alla retribuzione prevista dal CCNL di categoria ritenendo che non vi sia la ritenuta macroscopica sproporzione tra la retribuzione di 55 euro netti al giorno previsti dal contratto collettivo e gli effettivi 45 euro netti al giorno attribuiti ai lavoratori.

4. Con un secondo motivo di ricorso la difesa degli imputati coglie il medesimo vizio della motivazione con riferimento alla mancata restituzione dei beni oggetto di confisca rilevando in particolare che la Corte di appello di Palermo nella sentenza impugnata ha evidenziato che i lavoratori sfruttati erano stati reclutati ed effettivamente impiegati durevolmente nell’appezzamento di terreno di contrada R. nell’agro di M. e tuttavia tale appezzamento di terreno non è stato mai sequestrato in quanto non fa parte della proprietà degli imputati che invece possiedono dei terreni esclusivamente nella città di Mazara del Vallo. Da tale osservazione la difesa deduce la contraddittorietà della motivazione della sentenza della corte di appello che ha mantenuto la confisca sui terreni siti nella città di Mazara del Vallo anche se i ricorrenti avrebbero impiegato effettivamente le vittime del reato nel terreno non di loro proprietà presso la città di Marsala. Al riguardo osserva la difesa che gli appezzamenti di terreno siti in Mazara del Vallo e confiscati agli odierni ricorrenti non vengono mai menzionati nella sentenza e pertanto, a parere della difesa, viene meno la strumentalità e la pertinenza

tra il terreno oggetto di sequestro e il delitto almeno con riguardo all’apprezzamento di terreno sito in Marsala.

5. Con un terzo motivo di ricorso, strettamente dipendente dal secondo, la difesa lamenta la nullità della sentenza per la mancata motivazione circa la confisca avendo la corte d’appello omesso del tutto di motivare sulle ragioni che hanno condotto a rigettare la richiesta di revoca della confisca ed essendosi limitata in modo generico a motivare in ordine ad un singolo appezzamento di terreno sito nella contrada di Marsala senza la doverosa motivazione su tutti gli altri terreni sequestrati. Il giudice di appello, a parere della difesa, avrebbe dovuto invece motivare nel senso dell’individuazione dei singoli elementi di prova che abbiano permesso di individuare la pertinenzialità dei singoli appezzamenti di terreni alla commissione del delitto per il quale sono stati condannati gli imputati.

6. Il procuratore generale ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. In ordine al primo motivo di ricorso il Collegio osserva che la critica della difesa si impernia sostanzialmente sulla motivazione circa il riscontrato indice di sfruttamento ex art. 603-bis, comma 3, n. 1) cod. pen., nell’ipotesi concretamente dimostrata (e non posta in discussione dalla difesa stessa)

dell’entità della retribuzione quotidiana, di circa 3 euro l’ora, corrisposta per tutto il periodo ai quattro lavoratori africani impiegati presso l’azienda agricola degli imputati. In particolare, viene criticata la dedotta sproporzione richiesta dalla legge utilizzando come parametro il contratto collettivo nazionale di lavoro per la categoria degli operai agricoli laddove, a parere della difesa, il differenziale non costituirebbe, invece, quell’entità economica minima per integrare l’indice di sfruttamento previsto dall’art. 603-bis, comma 3, n.1) cod. pen..

2. Al riguardo, considerato che il giudizio sulla sussistenza di tale indice, e in particolare sull’elemento della “palese difformità” o “sproporzione” della retribuzione, è valutazione di fatto riservata al giudice di merito, non sindacabile dal giudice di legittimità, chiamato ad esercitare il controllo dell’uso logico e coerente dei criteri ermeneutici, si osservi che la motivazione della corte d’appello, conformemente a quella della sentenza di primo grado, si sofferma in modo ampio, lineare, convincente e coerente, sulla discrezionalità del giudice di dedurre la condizione di sfruttamento attraverso uno degli indici dettati dalla legge e in particolare attraverso il parametro ex art. 603-bis, comma 3, n. 1, cod. pen., del confronto tra la retribuzione effettivamente versata ai braccianti e quella prevista dalla contrattazione collettiva per i lavoratori agricoli.

3. Atteso che la difesa chiede sostanzialmente la verifica dell’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’interpretazione delle locuzioni normative usate nell’art. 603-bis, comma 3, n. 1, cod. pen., occorre evidenziare che, con una tecnica normativa volta ad agevolare l’individuazione delle fattispecie riconducibili all’alveo della condotta incriminata, il legislatore offre quattro indici per determinare la sussistenza delle condizioni di sfruttamento lavorativo mediante una specifica delimitazione del precetto costituito dal divieto di sfruttamento del lavoro.

4. I vari indicatori delle condizioni di sfruttamento del lavoro elencati nei numeri 1)-4) della disposizione complessivamente disegnano il perimetro dell’area semantica della nozione di sfruttamento del lavoro e in quanto tali partecipano alla specificazione dell’oggettività materiale e giuridica nonché del dolo della fattispecie, svolgendo di conseguenza anche una funzione di agevolazione probatoria e di criteri guida per l’interprete (vedi Sez. 4, n. 45615 del 11/11/2021, omissis, Rv. 282580-01). Ciascun indicatore è sufficiente ma non necessario per definire la condizione di sfruttamento atteso che, come recita la medesima disposizione, per riscontrarsi in concreto basta “la sussistenza di una o più delle… condizioni”. In proposito la giurisprudenza ha chiarito che la prova dello sfruttamento può derivare anche aliunde (Sez. 4, n. 7857 del 11/11/2021, omissis, Rv. 282609-01) precisando che l’elencazione degli indici di sfruttamento non ha carattere tassativo potendo il giudice individuare ulteriori condizioni suscettibili di dare luogo alla condotta di abuso del lavoratore. Tali indici, come evidenzia in motivazione Sez. 4, n. 9473 del 30/11/2022, omissis, Rv. 284190-02, “non precludono l’individuazione di altre condotte che integrino la fattispecie di abuso, posto che essi costituiscono meri indicatori della sussistenza del fatto tipico, che ben può risultare aliunde, purché si concreti l’assoggettamento a condizioni di lavoro cui si subisce l’imposizione” (Vedi anche Sez. 4, n. 7861, del 11/11/2021, dep. 2022, omissis, Rv. 282604-01). Anche per tali motivi Sez. 4, n. 9473 del 30/11/2022, omissis, Rv. 284190-02, ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale avanzati circa la tassatività degli indici de quibus, e su cui non occorre soffermarsi atteso che il ricorso introduce il tema non della tassatività della fattispecie ma dell’applicazione e interpretazione degli elementi descrittivi dell’indice di sfruttamento e in particolare della difformità e proporzione della retribuzione rispetto al contratto di riferimento.

5. Nel motivo di ricorso, specificamente, non si dubita della tassatività della fattispecie ma si lamenta l’uso della discrezionalità nell’interpretazione dell’indice di sfruttamento, sub n. 1) dell’art. 603-bis, cod. pen, costituito dalla “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

6. Si pone, pertanto, il tema dell’interpretazione dei singoli elementi che integrano tale indice anche con fonti extrapenali, di diritto del lavoro, sindacale, civile, costituzionale. La spiegazione di tali elementi integrativi della norma penale contribuisce a definire l’oggetto del dolo e i margini di ammissibilità dell’errore sulla legge extrapenale ex art. 47 cod. pen..

7. Il primo di tali elementi è costituito dalla “retribuzione”: tutto ciò che è dovuto per la prestazione lavorativa non solo come complessivo trattamento economico di base ma anche come indennità a vario titolo corrisposte per la prestazione. Il termine “retribuzione”, pur evocando nel sinallagma contrattuale il rapporto di subordinazione, non confina l’applicabilità dell’indice de quo al rapporto di lavoro subordinato ma si estende a qualsiasi forma di corrispettivo per un’attività lavorativa accettata in uno stato di bisogno, di cui approfitta una parte per la disparità di forza contrattuale, ancorché qualificato o simulato sotto altri tipi contrattuali. Pertanto, il termine si riferisce a qualsiasi obbligazione corrispettiva sorta da un contratto avente ad oggetto una prestazione lavorativa pattuita

approfittando dello stato di bisogno del lavoratore. Si pensi al corrispettivo per i lavoratori eterorganizzati, tirocinanti, stagisti etc. e a tutte le attività che esulano dall’applicazione di qualsiasi contratto collettivo di lavoro.

8. Tale lettura si impone per due ordini di considerazioni: in primo luogo per evitare un’ingiustificabile disparità di trattamento tra prestatori la cui attività è riconducibile alla contrattazione collettiva e lavoratori che non vi rientrano pur prestando la propria attività nelle medesime o analoghe condizioni di lavoro; in secondo luogo, perché il medesimo indice fa riferimento a tutte le corresponsioni in cui “comunque” v’è una sproporzione rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

9. Si badi che l’avverbio “comunque” utilizzato nell’ultima parte dell’indice n. 1) richiede l’applicazione del parametro in ogni caso a tutti i rapporti di lavoro, comunque titolati, a prescindere dall’ambito applicativo della contrattazione collettiva, in cui vi sia sproporzione quantitativa e qualitativa tra lavoro e corrispettivo seppur accettata, o rectius subita per lo stato di bisogno. Viceversa, se si ritenesse di limitare l’applicazione soltanto ai rapporti di lavoro subordinati privati, regolati dalla contrattazione collettiva, non avrebbe alcuna ratio essendi la seconda parte della disposizione e in particolare l’avverbio “comunque”.

10. Tale retribuzione, prima della legge 29 ottobre 2016, n. 199, era prevista come “sistematica”, e, invece, dopo tale riforma deve essere “reiterata”; modifica che non suggerisce più la necessità di una paga costante e nemmeno di un’abitualità, bastando una seconda retribuzione per superare la soglia della punibilità. Non c’è sfruttamento, di conseguenza, per una mera sommatoria di condotte episodiche in danno di lavoratori diversi (sez. 4, n. 45615 del 11/11/21, omissis, Rv. 285880-01).

11. La disposizione prevede anche la corresponsione delle retribuzioni come riferimento all’effettive erogazioni patrimoniali dovute, non a quelle realmente versate (altrimenti paradossalmente andrebbe esente proprio il datore di lavoro che dopo aver ricevuto la prestazione non adempie ad alcuna dazione effettiva), e non al corrispettivo pattuito con accordi illegittimi per dissimulare la sottoretribuzione. La ratio di questo requisito si fonda sull’effettività del compenso, onde evitare facili e formali elusioni come avviene nel c.d. lavoro grigio, o specificamente nel lavoro agricolo con i finti periodi di disoccupazione volti ad approfittare fraudolentemente degli ammortizzatori sociali di categoria.

12. Nella prima parte la disposizione assume – quali parametri per valutare l’inadeguatezza della retribuzione – i contratti collettivi nazionali e territoriali (questi ultimi per tenere in considerazione i settori merceologici quali agricoltura ed edilizia in cui il livello territoriale rileva specificamente per la fissazione del salario) dei sindacati più rappresentativi.

13. Mancando un’anagrafe della rappresentatività nel settore privato, il legislatore ha fatto riferimento alle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale per evitare che contratti e sindacati “pirata”, cioè costituiti artatamente per simulare una rappresentanza ed esporre un’apparente bilateralità, potessero arrogarsi con una contrattazione priva di fondamento democratico, il potere di concorrere a delimitare l’area di rilevanza penale, producendo norme contrattuali con una retribuzione

indegna, da far apparire come frutto di relazioni sindacali. La locuzione normativa è in ossequio al principio costituzionale ex art. 39, comma 1, Cost. e alla rappresentatività sindacale effettiva, non solo maggiormente rappresentativa a livello comparativo; di talché potrebbero essere titolate anche nuove associazioni sindacali purché rappresentino un reale numero di iscritti, e vantino la partecipazione alle trattative sindacali per la contrattazione collettiva, con diffusione sul territorio nazionale.

14. Non necessariamente, quindi, il giudice deve far riferimento al contratto leader ma a quello principale tenendo conto dell’attività effettivamente svolta dal datore e in caso di attività miste a quello dell’attività prevalente.

15. L’indice de quo, nella prima parte, è incentrato sui dati ut supra che devono evidenziare una “palese difformità” tra previsione contrattuale collettiva, nazionale o territoriale, e retribuzione effettiva. Tale fondamentale (sebbene non unica) soglia di rilevanza penale si fonda sull’inadeguatezza del quantum erogato che non può essere definita in termini percentili dalla norma in ragione delle innumerevoli concrete variabili contrattuali. Si tratta di una retribuzione sostanzialmente imposta da chi approfitta economicamente di chi versa in uno stato di bisogno, portando al ribasso quanto pattuito nel contatto collettivo, eludendo anche le obbligazioni contributive, assicurative, di sicurezza, arrogandosi un’autonomia contrattuale unilaterale in spregio ai principi che presiedono il valore della contrattazione collettiva; pertanto, la difformità dal contratto collettivo è in re ipsa e diventa palese, cioè indice di sfruttamento, quando appare evidente e riscontrabile, in primo luogo, che la retribuzione effettiva corrisposta ai lavoratori in stato di bisogno, rispetto al quantum previsto dai contratti collettivi, dimostri un tale scostamento da ritenere che una reale rappresentanza sindacale, nazionale o territoriale, di entrambe le parti sociali, nelle date condizioni storiche ed economiche, non l’avrebbe di certo condivisa.

16. In secondo luogo, la “palese difformità” rispetto alle determinazioni della contrattazione collettiva, è concetto che non può essere tenuto distinto dalla sproporzione tra il lavoro prestato e la paga base anche tenendo conto di indennità di lavoro straordinario, notturno, festivo e dimensioni dell’impresa.

17. Si noti che il giudizio di proporzionalità cui è chiamato l’interprete dalla seconda parte dell’indice di sfruttamento de quo è la concrezione diretta del principio costituzionale dell’art. 36 Cost. che pretende una retribuzione idonea ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua

famiglia. Sicché la proporzione tra l’obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato, quale limite costituzionale volto a garantire equità e dignità, deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere “comunque” anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettata. L’autonomia delle parti sociali non può infatti derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2, 3, 4, 36 e 41 Cost.

18. In breve, non v’è proporzione tra retribuzione e lavoro prestato quando, tenendo conto delle variabili mansionali, dell’effettiva prestazione patrimoniale, comprensiva della paga base e delle eventuali indennità, sviluppato un calcolo per un arco di tempo quotidiano, settimanale o mensile, considerato dalla contrattazione o dagli usi, l’importo del corrispettivo non assicurerebbe al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera dal bisogno che lo ha costretto ad accettare quelle date condizioni di lavoro.

19. Tale deve considerarsi una retribuzione al di sotto della soglia di povertà assoluta pur sempre in presenza dell’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore.

20. Tale sproporzione nel caso concreto non va colta, come invece prospetta la difesa dei ricorrenti, con un semplice raffronto tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e quindi tenendo conto dell’attività, delle complessive condizioni di lavoro, e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. Il riferimento per gli operai agricoli non è solo al CCNL ma anche a quello provinciale, nella fattispecie di Trapani.

21. Al riguardo basti osservare che nel caso concreto il confronto non può risolversi tra la somma dei 45 euro netti effettivamente riconosciuti ai quattro lavoratori e la somma di 51 euro netti astrattamente previsti perché si tratta di due somme risultanti da una quantificazione oraria notevolmente diversa: nel caso concreto si riferisce alla somma prodotta da una attività lavorativa di almeno 9 ore al giorno, in condizioni indegne e particolarmente faticose, a fronte invece di una somma contrattualmente riconosciuta per poco più di sei ore al giorno, per cinque giorni a settimana, con tutele, pause, riposo, ferie etc, del tutto sconosciute nel rapporto di lavoro irregolare. La condizione di lavoro emergente dagli atti è ben più gravosa e non riducibile alla mera quantificazione oraria dell’attività lavorativa.

22. È evidente che il raffronto non depone a favore di quanto prospettato dalla difesa e di questo la motivazione dà ampia spiegazione ponendosi in linea coi principi sopra esposti.

23. Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto rigettato.

24. In ordine al secondo e terzo motivo di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente atteso che rilevano profili in parte sovrapponibili, il Collegio osserva che tali motivi di ricorso sono attinenti alla motivazione del provvedimento ablativo dei beni già oggetto di sequestro preventivo, e riguardano sostanzialmente entrambi la completezza della motivazione circa la spiegazione della pertinenzialità e strumentalità del bene confiscato rispetto al reato per cui è intervenuta la condanna.

25. In particolare, in relazione a tali motivi di ricorso, si noti che l’impianto motivazionale di primo grado è interamente recepito nella motivazione dell’appello che accoglie e ribadisce il rapporto di funzionalità e pertinenza tra l’attività lavorativa e l’azienda agricola degli imputati.

26. La difesa rileva che effettivamente sono stati sequestrati e successivamente confiscati i fondi agricoli in Mazara del Vallo di proprietà degli imputati ma trascura che si tratta di res pertinente al complesso aziendale luogo dello sfruttamento, non rilevando che l’attività lavorativa sia stata prestata su due diversi fondi, uno a Marsala (non di proprietà dei ricorrenti), l’altro a Mazara del Vallo (di proprietà dei V. e quindi confiscabile).

27. L’art. 603-bis 2, cod. pen. prevede la confisca obbligatoria diretta delle “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto” e ove non sia possibile anche la confisca per equivalente.

28. In proposito si deve rilevare che la confisca diretta ha per oggetto tutti i beni funzionali a commettere il reato di sfruttamento lavorativo o da cui ne è derivata un’utilità ancorché marginale. Trattandosi di un reato sostenuto da motivazioni economiche, che lede oltre che la libertà individuale e la dignità umana del lavoratore anche l’interesse pubblico all’osservanza delle norme che presiedono il mercato del lavoro e la regolarità del rapporto di lavoro, e specificamente della formazione ed esecuzione del contratto di lavoro e delle obbligazioni retributive, contributive, assicurative, di sicurezza che ne derivano, il legislatore obbliga il giudice alla confisca di tutti beni che costituiscono il contesto materiale ed economico connesso al reato. Di talché, appare diretto il collegamento tra lo sfruttamento e l’azienda, intesa sia quale luogo fisico in cui si consuma lo sfruttamento sia quale complesso di beni funzionali allo sfruttamento della manodopera e all’approfittamento dello stato di bisogno.

29. Salvi i diritti della persona offesa e di terzi, la disposizione non si applica soltanto ai beni di proprietà dei datori di lavoro che potrebbero essere anche soggetti diversi dai titolari dell’azienda ma a tutti i beni pertinenti al reato, a prescindere dalla loro allocazione topografica, ancorché non appartenenti agli imputati, allo scopo di evitare facili elusioni con intestazioni societarie o fittizie.

30. Pertanto, in tema di confisca obbligatoria di cose pertinenti al reato di sfruttamento del lavoro ai sensi dell’art. 603-bis 2, cod. pen., è oggetto di confisca l’azienda, intesa quale complesso di beni funzionali, ove e per la quale si è consumato lo sfruttamento della manodopera.

31. Con particolare riferimento all’azienda agricola, i terreni, i fondi rustici, le pertinenze, le attrezzature, gli impianti, sono il luogo imprescindibile ove funzionalmente viene impiegata la manodopera, ove ci serve dei lavoratori agricoli e che, a sua volta, serve al loro sfruttamento. Tale pertinenzialità non viene interrotta se, come nel caso concreto, alcuni terreni di proprietà degli imputati (e oggetto di sequestro e poi del provvedimento di confisca) sono diversi da quelli indicati in imputazione, in quanto si tratta pur sempre di fondi agricoli del medesimo compendio aziendale nel quale e per l’utilità del quale i quattro lavoratori africani erano sfruttati.

32. Pertanto, la motivazione sulla confisca dei terreni siti nell’agro di Mazara del Vallo, di proprietà degli imputati, appare coerente, congrua e logicamente esaustiva e resiste ai motivi di ricorso sul punto.

33. In definitiva, si rigettano i ricorsi degli imputati che sono quindi condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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